Gabriella Leto e la poesia che osserva

Può essere bello lo stesso
un mondo che non ha colore
che si svigorisce che langue
che indossa un vestito dismesso.
Ma io vorrei ritrovare
il verde mutante del mare
il blu da parata d’onore
il rosso fiottante del sangue
col dolce perverso suo odore.

 

Gabriella Leto inanella una dopo l’altra parole che costruiscono versi musicali che hanno il movimento del ritornello. Nulla è lasciato al caso, o alla sonorità, ma si tratta di una costruzione attenta di testi spesso in endecasillabi, con rime interne, assonanze, enjambement, e molte delle figure retoriche relegate talvolta alla poesia di altri tempi. Ma la poesia di Leto è contemporanea e fervida di dettagli provenienti dall’oggi a noi consueto, come un indumento liso preso da un cassonetto, la smilace che si attorciglia, l’amico scomparso, l’odore acre di strame, i giardini di notte, dettagli che spalancano a una osservazione sull’eterno umano, a un ricordo, a un passo che sarà del futuro: “Vedersi ascoltarsi contare / del tavolo le nervature / la mente è divisa una parte /di lei non può non andare / al tempo delle avventure […]”. In dettaglio anche minimo dell’osservatore che fa affiorare bellezza alle labbra e apre al verso. Il ritmo nelle liriche di Leto dà musica e tempo alla poesia sottraendo peso a quella tristezza e a quella malinconia inevitabile nel guardare le assenze o le mancanze nella vita. I colori rimarcano in tutte le sue raccolte la ricerca di uno sguardo vivo e pulsante sulle cose, quella vividezza che nel verso colore e ritmo accendono. L’uso talvolta estremo della punteggiatura, la sua assenza come la sua personalizzazione marcata, unito all’enjambement costringe, felicemente, il lettore ad appoggiarsi alla poeta come in valzer, scoprendo di riga in riga, di verso in verso, il compimento del racconto: “[…] Si attenua la distanza nel tenere le schegge / di una memoria salda che il passato incatena” […]”.

 

Gabriella Leto, L’ora insonne, Einaudi, Torino, 1997

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