Ho incontrato Ada Lovelace due volte. La prima, ero giovane, illusa, almeno quanto lo fu lei. Speravo di diventare giornalista scientifica; che sciocca. Al tempo ricercavo le grandi scienziate, le donne che segnarono il mondo ma che il mondo volle dimenticare. Fra carte e carte – allora non c’era il web per tutti – la vidi spuntare: bella, ricca, infelice, privilegiata, perduta. Nessuno mai, allora, mi concesse l’opportunità di scrivere su di lei, che nei primi anni anni ’90 in Italia era quasi del tutto sconosciuta presso i direttori di quotidiani e di periodici. Restò sempre per me un sorella d’anima, una donna che osò sognare in grande.
Nello spettacolo di Valeria Patera l’ho rincontrata di nuovo. In pieno, in anima e in corpo, Ada. Sulla scena, dopo la precisa introduzione di Laura Palmieri, della redazione de il teatro di Radio3, Ada ha preso vita, come non avrei saputo immaginarla, vera nella complessa personalità, nel difficile rapporto con la madre, nel sogno del padre, Lord Byron, mai incontrato da lei in vita.
Valeria Patera, grazie al talento di scrittura, unito a una profonda conoscenza e passione scientifica, nel suo testo riesce a far rivivere la persona umana e storica di Ada, intrecciata alle profondità del pensiero e alle intuizioni di filosofia della matematica e della scienza. Ci si emoziona, ci si identifica, e insieme si impara, ci si affaccia al mondo libero del pensiero scientifico, che si credeva di aver perduto per sempre. Come di rado a teatro accade, ci si dimentica di essere spettatori e si entra nella scena, la si vive, la si ragiona. Assistere alla “Fata Matematica” è in ogni momento vita vera, esperienza che resta, oltre la quarta parete.
Forse la particolare pregnanza dello spettacolo è legata anche al luogo dove si è svolto, nel teatro Rai di via Asiago, in contemporanea alla sua trasmissione per Radio 3 Scienza. Una situazione intima anche se ogni posto a sedere era gremito, e c’erano anche persone sedute sui gradini. Nel pubblico, matematici e soprattutto matematiche, che partecipavano, entusiasti come ragazzini, e che, dopo, hanno dato vita a un vivace dibattito, moderato da Rossella Panarese della redazione di Radio3scienza, su donne, matematica e scienza, senza luoghi comuni, scevro di solite banalità e degli stereotipi sulla mente femminile. Si è creata un’atmosfera quasi di complicità, che mi ha coinvolta in pieno, pur se il sogno di laurearmi in fisica è stato stroncato da mia madre nel 1961, dopo la maturità: “non è studio per donne, te lo proibisco”.
Anche la scena, limitata a pochi oggetti e a una scelta proiezione di immagini, spingeva alla partecipazione: essenziale ma perfettamente centrata, riempita da una perfetta Galatea Ranzi che trascolorava in tutte le diverse sfaccettature del suo personaggio, che era via via una bambina ribelle, una ragazza appassionata, una donna sensuale e disperata. Accanto a lei, un bravo Luigi Fogacci che rendeva alla perfezione la concretezza di Charles Babbage.
Lady Ada così mi potuta invadere con la sua grandezza, con la giovane mente di cui è tuttora difficile tracciare i limiti, e lo sguardo che seppe vedere, oltre i tempi e le tecniche, le vastità che attendono l’ingegno umano. Mi ha abbattuta e esaltata, con le sue difficoltà, i vizi, le lontananze. La lussosa prigionia. Fragile, elegante, infinita Ada.