11 LUGLIO 1982

Vivevo sola con una gatta nera da guardia, in un buco che da privilegiata ero riuscita ad avere a equo canone, e solo perché il proprietario era mio padre. Il quale padre giustamente però si aspettava il puntuale pagamento al cinque del mese: non ne ho mai saltato uno, neanche quando, era febbraio, me ne andai dal lavoro alimentare all’ennesima pesante molestia (all’epoca ero piuttosto carina, ma non lo sapevo) e iniziai a vivere insegnando inglese e facendo traduzioni.
Le traduzioni… ne ricordo una in particolare, un immenso plico con il resoconto della sperimentazione di un farmaco: scrivevo e piangevo sulla sorte delle scimmie cavia.
Poi smisi di piangere, forse mi ci ero abituata, non so.
Guadagnavo pochissimo, e le priorità erano nell’ordine: affitto, gatto, sigarette, caffè, libri e musica.
Ringraziando il cielo ero felicemente anoressica, per cui il cibo non era un problema.
C’erano cinque piani da fare, e avevo tolto la porta del bagno: avevo deciso di selezionare gli amici, e queste due cose aiutavano parecchio. Mi occupavo di mia madre ammalata, di un’anziana zia che amavo molto, di mio padre che come molti uomini della sua generazione non era nemmeno in grado di farsi un caffè.
Non avevo la tv per scelta, ma vissi la finale dei mondiali di calcio da una tenda piantata alla Pellerina a Torino dopo un fantastico concerto degli Stones. Ricordo i boati lontani, e il frastuono di clacson che arrivava dalla città. Mi cullò nel sonno, aiutato da un certo numero di canne.
Alle cinque mi scossi, chiedendomi cosa fosse stato ad avermi svegliato: era il silenzio. Erano andati tutti a dormire.
Mi alzai, uscii dalla tenda, tirai un gran respiro.
Ero viva, e non sapevo come prenderla.

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