La scena è surreale: un uomo in mutande e calzamaglia che solleva un’automobile nel mezzo di una strada. Non è un saltimbanco, è Ciclone-l’Uomo d’acciaio, il primo avatar italiano di Superman, sbucato dal n°19 degli Albi dell’audacia. È il 2 luglio 1939 e Ciclone, nonostante l’abbigliamento poco virile e il nome da detersivo, sembra avere tutte le carte in regola per diventare un idolo della gioventù fascista: il mento volitivo, la sorprendente somiglianza con Primo Carnera, il pugno imbattibile e una storia che sembra quella di un Romolo fantascientifico, lanciato nello spazio a bordo di una navicella d’emergenza e adottato da due anziani contadini. Pochissimi, però, in Italia sanno che dietro le storie di Ciclone-Superman ci sono due ragazzi ebrei americani, Siegel e Shuster, e che il loro personaggio non è un superuomo dannunziano, ma una specie di Messia o di Golem ebraico venuto a vegliare sui terrestri lanciati verso la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale. Dopo aver subito la patetica italianizzazione del nome, Superman subirà anche le leggi razziali? Fortunatamente no, anche se alcuni autori nostrani provano a rendere Ciclone più “ariano”. Superman, però, è quello che è: un extraterrestre dotato di superpoteri talmente straordinari da renderlo timido e impacciato, quasi un disadattato, cioè quanto di meno fascista si potesse immaginare. Un uomo grigio, che si nasconde dietro gli occhiali spessi del goffo e remissivo Clark Kent, cronista senza nerbo, perennemente umiliato da quella virago di Lois Lane e buffamente imbranato con le donne. Incredibilmente Ciclone ebbe successo, anche se a quell’epoca un giornalista che giocava a fare il superuomo (anche sopra le scrivanie) ce l’avevamo già: o mi ricordo male?