*Abbiamo vinto – gridò Fidippide prima di crollare a terra, morto. Ho vinto ha gridato Baldini disperatamente felice.
E’ proprio la disperazione lo stato mentale del maratoneta. Fin dalla partenza, dopo aver percorso i primi 195 metri, quando si comincia a contare i 42 km restanti , si viene assaliti dalla disperazione. Si pensa di non farcela, di dover rallentare a causa di crampi. Si teme il mal di pancia. Si continua a misurare il battito per vedere che non superi le 150 pulsazioni al minuto. Si cerca un compagno adatto al proprio passo. Tuttavia dopo i primi 10 km non si sa più quale sia il proprio passo e quale sia il passo giusto per arrivare fino alla fine. A chi osserva il maratoneta dei primi 10 chilometri appare come se ne avesse già percorsi 36. La faccia è stravolta, il fiato è corto, il passo incostante. Non è la fatica bensì la disperazione. Il terrore di non riuscire a concludere la gara. Si continua a pensare di aver sbagliato l’allenamento, la dieta, le scarpe. Tutto. “Quando corro, semplicemente corro. In teoria nel vuoto. O viceversa, è anche possibile che io corra per raggiungere il vuoto”, scrive Murakami Haruki nel suo libro l’arte di correre (Einaudi) . La frase è poetica e molto di effetto, ma del tutto irreale.
Quando si corre per 42 km non si corre semplicemente, si sottopone il proprio corpo ad uno stress assurdo come in nessun altro sport.
Per più di due ore (gli atleti), per più di tre ore (i bravi dilettanti) o per più di 4 ore (tutti gli altri) il cuore, i polmoni, le vie respiratorie, i muscoli, le articolazioni, sono costretti ad un super lavoro, che, piano piano, porta a consumare non soltanto tutte le riserve caloriche, ma anche le capacità cognitive.
Al traguardo della mezza maratona si inizia a sentirsi più leggeri. La disperazione si dimezza, ma in più si percepisce che il corpo si sta abituando a questo gesto paradossale della corsa e ci si sente bene, reattivi, forti. Però è soltanto un’illusione.
Un’illusione che dura per circa 10 km. Dopo il trentesimo chilometro, la stanchezza ti monta sulle spalle e ti costringe a portarla fino al traguardo. Non la si vede e, per un po’, ancora ci si illude di non sentirla. Si va avanti, pensando di accelerare, sicuri di essere oramai arrivati. Almeno si crede di stare accelerando. Guardando il cronometro invece ci si accorge di continuare inesorabilmente a rallentare. Siamo colti dal panico. Vogliamo reagire ma non abbiamo più le forze. Perciò proseguiamo per inerzia. Poi al quarantesimo, in vista del traguardo, ci si rianima. Ci si accorge della gente che ti esorta, degli speakers che ti gridano che sei arrivato. Allora si assume una posizione più eretta per la passerella finale e si vola leggeri, raschiando le ultime energie disponibili. Ma, non appena si arriva, si ricade in uno stato di semincoscienza. Ci si sente come se ci si fosse svegliati da un incubo. Devono trascorrere almeno 10 minuti prima di rendersi conto di essere vivi e di aver finito di correre la corsa di Fidippide. Così un po’ zoppicando ci si avvia a casa, ripetendoci “abbiamo vinto”.