24 Maggio: la guerra che non voleva nessuno

C’è una ricorrenza che a me mette un po’ di tristezza, e non è il 2 novembre. È il 24 maggio. Data in cui, esattamente un secolo fa, l’Italia entrò fra i belligeranti della prima Guerra Mondiale. 

La tristezza si può racchiudere in un numero e in una parola. Il numero è 600.000. La parola è “parecchio”.

Un conflitto globalizzato e distruttivo come la Seconda Guerra Mondiale, che in totale causò 50 milioni di morti, costò all’Italia 441.000 vittime. Oltre ai militari, le vittime civili dei bombardamenti e delle repressioni naziste. La guerra mussoliniana si combatté su più fronti: Russia, Balcani, Nordafrica, Africa Orientale, poi la stessa Italia.

La Grande Guerra, invece, fu combattuta su un fronte di circa 300km, che però, a seconda delle operazioni in corso, si restringeva. Ma causò la morte di 600.000 italiani, praticamente tutti militari. 

Questa macabra contabilità porta direttamente al “parecchio”. Parecchio era quello che secondo Giolitti si poteva ottenere dall’Impero Austro-Ungarico, in termini territoriali, se l’Italia fosse rimasta neutrale. Un “parecchio” che in fase avanzata di negoziati poteva, in pratica, equivalere al completamento del sogno unitario risorgimentale, cioè tutto ciò che si ottenne a guerra finita in negoziati peraltro mal condotti. Tanto più che l’Italia, quando nel ‘14 esplose il conflitto, aveva in essere con gli Imperi Centrali un trattato di alleanza.

Il costo umano della realtà fu di 600.000 vite spezzate. Il costo umano del negoziato, con sostanziale parità di acquisizioni, sarebbe stato 0.

Il discorso, ovviamente, non finisce qui. Ad aumentare la tristezza sono anche le circostanze in cui l’Italia entrò in guerra. Una specie di colpo di stato silenzioso.

La gente comune non voleva la guerra. L’opinione pubblica interventista, che fece abbondante ricorso alla piazza nelle sue forme più deteriori, era nei fatti chiassosa, minacciosa ma minoritaria. Mussolini fu fra i protagonisti. Il parlamento, se avesse potuto votare liberamente, sarebbe stato contrario alla guerra. E questo si sapeva, anche perché l’anziano Giolitti, anche lui contrario, non occupava più il potere, ma aveva un sufficiente controllo della maggioranza parlamentare. Eppure, il duo Salandra-Sonnino trovò il modo di bypassare sia il comune sentire, sia il parlamento: impegnò la parola del Re in una trattativa segreta, dopodiché il parlamento stesso si trovò nella condizione di dover sconfessare non solo il Governo, ma lo stesso sovrano se la trattativa segreta, di cui fu informato a cose fatte, fosse stata bocciata. Per la cultura politica dell’epoca tutto questo era inammissibile.

Eppure, dal fronte occidentale già provenivano notizie sul tipo di conflitto che attendeva il Regio Esercito. Una strage meccanizzata, una guerra di logoramento e di trincea che bruciava carne umana per la conquista di poche, inutili centinaia di metri. Spesso perse, riconquistate, riperse. 

Fu così anche sul fronte italiano. La retorica degli interventisti più accesi, che nella primavera di cento anni fa parlavano dell’effetto rigeneratore e purificatore del conflitto, riconfluì in una macelleria senza precedenti. E non poteva essere diversamente. Non eravamo né migliori né peggiori degli altri. Il nostro esercito, soprattutto dopo la disfatta di Caporetto, applicò gli stessi sistemi che altri eserciti avevano dovuto applicare in circostanze critiche. Fra di essi, la decimazione.

Poi tutto finì, il fronte italiano fu l’ultimo che si chiuse e fu la vittoria, ottenuta a Vittorio Veneto contro i resti di un Impero già dissolto. Arrivò il “parecchio”, che subito sembrò poco. Il Paese era lacerato e stremato, un’intera generazione si era abituata alla violenza. Nella primavera del ’15, la gazzarra aveva urlato che non sarebbe stato onorevole completare il processo unitario restando vilmente a guardare, e l’obiettivo avrebbe avuto un senso se anche il nostro Paese avesse pagato il suo prezzo. Dopo fu molto peggio, non solo in termini di vite umane. Basti pensare, per fare un esempio, all’inasprimento dei rapporti fra italiani e popolazioni slave nelle zone di confine, che furono anche teatro bellico.

Sulle conseguenze a lungo termine si può parlare a lungo. Ma per me, quando dopo la Marcia su Roma Benito Mussolini andò dal re a ricevere l’incarico di formare un governo, e gli disse: «Maestà, Le consegno l’Italia di Vittorio Veneto», so che non mentiva. Era esattamente quello che stava facendo.

Cosa resta, ora?

La pietà per i morti. «E tu onore di pianti Ettore avrai…» è sempre valido, nel rispetto verso una generazione bruciata.

Per me il 24 maggio non c’è nulla da festeggiare.

 

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