Il 25 Novembre è stato scelto dall’Onu come giornata internazionale contro la violenza sulle donne in onore delle Mariposas (in spagnolo, farfalle), come vennero chiamate dal popolo dominicano le sorelle Mirabal, dissidenti politiche che il dittatore Trujillo fece violentare e poi assassinare dai suoi sicari in quel 25 Novembre del 1960, provando poi a nascondere l’efferato crimine dietro un incidente. Il tentativo fallì ed il popolo insorse, giungendo all’omicidio dello stesso despota ed alla fine del suo regime. Tre farfalle da una parte, simbolo della forza e, purtroppo, dell’estremo tentativo degli uomini di soffocarne sogni, aspirazioni, indipendenza e libertà, e tanti “farfalloni” dall’altra, termine che in senso generico indica persone inaffidabili e, nel caso specifico, corteggiatori seriali che si pongono nei confronti delle donne come cacciatori in un safari.
Entrambe le figure, e ciò che rappresentano, sono parte integrante della riflessione che ogni società dovrebbe porsi per poter comprendere in profondità il fenomeno della violenza di genere e contrastarne le continue degenerazioni, a partire dalla scelta del delitto simbolico delle Mariposas – nel quale l’abuso sessuale fa da aggravante ma non è certamente il fine – e il tentativo vigliacco di nasconderlo, che mostra tutta la debolezza dell’aggressore, fosse anche un dittatore sanguinario. In quest’ottica, la violenza di genere assume contorni molto più ampi pur mantenendo lo stesso obiettivo: il dominio dell’uomo sulla donna.
Vista sotto questa prospettiva, appaiono alquanto maldestri (e un po’ strumentali) i tentativi di ridurre la questione di genere al solo abuso sessuale, magari individuando con metodo lombrosiano il responsabile tipico. Una simile visione può tornare certamente utile al governo di turno che, circoscrivendo il fenomeno, può quotidianamente esporre lo scalpo del singolo colpevole e, quindi, mostrare ai cittadini la vittoria all’orizzonte. Ma se per un attimo posiamo lo smartphone e usciamo dalla socialcrazia, la realtà ci apparirà molto diversa e molto più complessa perché cambiare paradigma significa prendere atto che la violenza sulle donne non può ridursi ad un insieme di fatti di cronaca ma è il perpetrarsi di piccole e grandi disparità quotidiane, dal linguaggio comune alle iniquità nel mondo del lavoro, fino ad arrivare alla insufficienza delle strutture territoriali per il monitoraggio sociale su scuole e famiglie. Abbracciare questa visione, per ciascuna e ciascuno, significa agire sulla prevenzione, prima che affidarsi alla repressione.
Ad opporsi a questa impostazione, che responsabilizza sostanzialmente ciascuna e ciascuno di noi, è da sempre la lobby dei “farfalloni”, con relativi supporter e silenziosi conniventi, quelli che “e allora chi ci deve pensare ai figli?”, “Eh, ma se si veste così…”, “Sembri una femminuccia/maschiaccio”, “È salita fino a casa mia”, “Assumi quella che è bona”, “Se si sposa ok, ma non mi rimanga incinta mi raccomando”,” Sentivo rumori accanto, ma pensavo fossero solo liti”, “Picchiava la moglie, mica i figli”, e via discorrendo. Una corporazione, quest’ultima, più potente e, soprattutto, reale rispetto a quelle teorizzate dai complottisti, capace, nel corso dei secoli, di impiantarci non un chip nel cervello ma un gene nel DNA culturale, vera origine di ogni piccolo o grande abuso sulle donne e parassita da eliminare.
Concentriamoci su questo, denunciamo e interveniamo ogni giorno su ogni discriminazione cui assistiamo per strada, sul luogo di lavoro, dentro il nostro condominio, stressiamo la politica affinché, oltre a sfornare leggi bellissime, fornisca alle forze dell’ordine, alla magistratura ed alle istituzioni locali mezzi e uomini perché vengano rispettate. Solo così, giorno dopo giorno, lentamente ma inesorabilmente, cancelleremo il gene “farfallone”, permettendo alle prossime generazioni di Mariposas di potersi finalmente librare nell’aria in tutta la loro bellezza.