Tomboy è l’indefinibile che slitta e oscilla, fatto di primi piani e sguardi. Diretti, in macchina. Perché certe cose, dubbi, paure, coraggio e disprezzo sono negli occhi. Sarebbe un racconto breve Tomboy, se fosse letteratura. Un Tonio Kröger al contrario. In effetti è l’altra faccia della luna di un delizioso film, anche lui francese, di qualche anno fa: La mia vita in rosa. Lì c’è un bambino che si veste da bambina, i genitori lo scoprono con costernazione e rabbia, gli altri lo prendono in giro. Qui c’è una bambina che vuole fare e avere quello che fanno e hanno i maschi, i loro giochi e la loro libertà. Che guarda il suo corpo liscio e magro, i suoi capelli arruffati e corti e si chiede chi è. Non finge un’identità, la sperimenta. E’ in quel bilico, in quella linea sensibile che sta tra maschile e femminile, che lei diventa una femmina diversa, un maschio diverso. Pagando un prezzo, certo, come sempre si paga quando si è altro non dalla normalità ma da un conformismo, da regole che non tengono conto della bellezza dell’essere umano e nemmeno della sua complessità. Una strepitosa attrice è Laure/Michael, una bambina di intensità straordinaria, altrettanto la sorellina, che è l’unica, con l’istinto dei piccoli che si basano solo sulla legge dell’amore, a capire, altrettanto l’amica del cuore che obbedisce alle leggi del branco e poi si accorge che sono stupide. Tomboy ci rimane dentro, in un’area off limits che ognuno di noi possiede e spesso non riconosce.