Vaffambeep

 

Venezia. Sugli autobus e all’ingresso dei pontili, ai quali i buttacorde legano i battelli, spuntano strani funghi: trabiccoli hi-tech, custodi di ogni andata e ritorno. L’azienda del pubblico trasporto che li ha sfornati, li chiama “validatrici”. Un cerchio spesso, che pare la scatola dei formaggini Susanna, s’innesta in un rettangolo dai bordi arrotondati. Un ventaglio di sei pulsanti, per “chiedere informazioni”, “scegliere il titolo di viaggio prediletto”, “selezionare” o “deselezionare”, “dare ok” o “annullare l’operazione”, fa da corona al logo della rivoluzione: imob. C’è chi lo pronuncia così com’è scritto e chi ha in mano l’aimòb. È la pronipote della vecchia CartaVenezia. Una tesserina magnetica con tutti i dati personali del possessore e che, bippata in faccia al tecno-totem, risveglia l’ambizione semaforica delle tre luci in cima all’aggeggio, e i messaggi sul display:
Verde. Puoi salire, goditi la gita.
Giallo. Non è che hai sbagliato a pigiare qualcosa?
Rosso. Ehi, portoghese impenitente che non sei altro! Dove credi di andare? Non sei abbonato, non hai biglietti… la tua faccia non mi sta per niente simpatica e così, a occhi e croce, mi sa che ieri hai mangiato aglio.
Portafogli agitati, gole strozzate da collane porta-tessera, tasche ravanate disperatamente, pioggia di dita su tutti i tasti a disposizione.
Niente. Inesorabile, scatta ancora il rosso, accompagnato da un’ammonizione sonora, che – Peeee! Eccolo, il ladro! – strombazza agli astanti l’evidente tentativo di frode.
È a quel punto, di solito, che scatta il Vaffa. Potente come un do di petto, espelle rabbia, miseria, ferimento nell’onore che manco Mimì Metallurgico. Si sprecano i “fatti i cavoli tuoi” indirizzati, a ciglia strette, a chiunque si sogni di bofonchiare.

A bordo, beccheggiando sulle onde della laguna o reggendosi agli appositi sostegni di un super-moderno, bonificato, sfavillante pullman di linea, l’improperio si dissolve, dolcemente sostituito, cammin facendo, dalla nostalgia.

In qualche anfratto della borsa, o nel cassetto del casino, sotto il telefono dell’ingresso, deve essercene ancora qualcuno: accartocciato, smangiucchiato, torturato da unghie impazienti, scarabocchiato per noia.
Un biglietto di carta rossa nove per quattro. Si falsificava con la colla-vinilica-pre-Muciaccia e tornava buono per i filtri delle cicche fatte a mano. All’estremità, una fascia più chiara veniva inghiottita dalla prosaica macchinetta, quando ancora si timbrava. In basso, vicino allo strappo che aveva liberato il tagliandino dal blocchetto originario occhieggiava, bianca, una scritta per attempati risparmiatori: 1000 lire.

 

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