Il Palazzo, La prima bicicletta


La prima bicicletta

Potevamo andare su e giù per il marciapiede del viale. Fino all’angolo del Palazzo e ritorno. E piano. E sotto gli occhi di Lucia. Fu un difficile permesso da strappare. Più difficile ancora non girare l’angolo, ché c’erano le sirene a chiamarci di là. Poi un giorno Rocco gridò: ”Chi è comunista venga con me!” Mi ricordai del nostro giuramento e lo seguii.

Col cuore in gola pedalavamo sul marciapiede straniero. Altri portoni, altre finestre con panni colorati stesi al sole, e cani, persone, odori diversi, diversi bambini, una fontanella con l’acqua che scorreva… Pedalare, dare calci ai confini. Gridava al cielo, Rocco, come fanno i maschi giovani. Il mondo ci entrava negli occhi, non lo riconoscevo , ne avevo paura.

“Dove andiamo? ”gli chiesi.

”Facciamo il giro: non si può tornare indietro”.

Imparai così che si può fare un giro intorno a tutto. E che indietro, comunque, non si torna. Avevo fiducia in Rocco. Ho sempre avuto più fiducia negli uomini che nelle donne, chissà perché. Motivo non ce n’è davvero. Ma il mondo protetto e perverso delle donne non mi è mai parso tanto vitale come quelle urla da sciocco guerriero.

Quando sbucammo dall’altro angolo, scampanellando, erano passati pochi, formidabili  minuti. Sulle biciclette, piedi a terra, gli altri ci aspettavano in silenzio. Era la nostra infanzia, erano i nostri amici, ma dietro l’angolo c’era l’altrove dove sempre avremmo cercato di andare.

“Si può fare”, dicemmo. Si può fare tutto.

Lucia non si era accorta, o forse non le era convenuto. C’era il suo fidanzato a trovarla, se avesse dato l’allarme della nostra fuga, avrebbe dovuto venirci a cercare. Solo giorni dopo , però, decidemmo per un altro giro. Portammo con noi Maurizio e Patrizia. Erano eccitati e contenti. Ma i comunisti restavamo noi, Rocco ed io. Noi i primi, che c’entrava il comunismo? Tutto, credo.

Se per Itaca volgi il tuo viaggio,
fa voti che ti sia lunga la via,
e colma di vicende e conoscenze.
Non temere i Lestrigoni e i Ciclopi
o Posidone incollerito: mai
troverai tali mostri sulla via,
se resta il tuo pensiero alto, e squisita
è l’emozione che ti tocca il cuore
e il corpo. Né Lestrigoni o Ciclopi
né Posidone asprigno incontrerai
se non li rechi dentro, nel tuo cuore,
se non li drizza il cuore innanzi a te.
(Itaca, Kavafis)

Quando il fidanzato di Lucia non c’era, lei stava sul portone con gli occhi anche sulla nuca, come le creature mitologiche. Gli altri bambini prendevano le botte, in questi casi. Le prendevo anch’io se mi punivano mia nonna o le zie . Papà, invece, faceva la faccia severa e non mi guardava, che era peggio. Mi scoppiavano dentro i mal di stomaco imperiali e la testa mi si rompeva. Stavo tanto male che la famiglia si mobilitava con pezze fredde e borse calde. Vomitavo il veleno dell’abbandono finché mio padre non veniva a” vedere come stavo”. Io facevo finta di nulla, lui pure, e il castigo era dimenticato. Far finta di nulla era il nostro modo per non lasciarci andare, per tenere le funi che legavano le nostre esistenze senza la mamma. Quando si ammalò far finta di nulla non si poteva. Mi tendeva la mano  e non potevo lasciarla a galleggiare tra tutte le promesse non mantenute che abitavano lo spazio tra il suo letto e la mia sedia.

“E’ dura da scorticare questa coda”, diceva.

Mio padre la vita se l’era mangiata come fosse un animale. L’aveva fatto apposta. Non si risparmiava niente, così, mi confidò un giorno, si arriva ad essere tanto malmessi che se ci si ammala, si muore in fretta.

Non è vero.  (continua)

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