Negli anni ’50, in camicia,
percorrevamo le piste delle zebre.
Sotto le ruote scivolavano gli eoni,
sospiri d’orbita salivano alle orecchie
e la padrona del circo Medusa
articolava le parole dell’incanto,
dell’equa offerta, della candela accesa.
Madame Sosostris, nuda nell’ampolla,
disseminava il tavolo di carte:
l’appeso, il folle, il mastro di memoria,
la donna che saltava sulle uova,
il sauromante, il bruco d’aspidistra.
Respiravamo olio di motori,
aria e benzina, tintura di cilindri:
il retrogusto di alternatori infetti
si mescolava all’agonia di spinterogeni,
all’impazienza di valvole a camme.
“Abbiamo dio”, mi disse l’uomo nello specchio.
“Abbimi, dio”, rispose il suo riflesso.
Gli occhi del muto scintillavano di trine
mentre le pietre divelte del selciato
venivano battute in alluminio.
C’erano tutti, meno gli invitati,
c’era il regista delle nozze sacre,
la ierogamica zuppa di cipolle
da cui il destino dipanava lenti transiti,
ambiti incerti, suture pudibonde.
C’era l’uomo sui trampoli, lo zoppo,
l’inetto tagliatore di diamanti
che illuminava la sua tabe onirica
con fiamme d’ali di libellula impaziente.
C’era il poeta gobbo, il servo muto,
il cane afasico del piano apocalittico,
Fleba il fenicio, l’ombra del pescatore.
Mancava solo l’urlo del motore,
l’aria di ruote, il fumo dell’ellisse.
Dio, catturato da una coppia di bifolchi,
si trascinava dietro i ceppi della fede,
quelli del dubbio, quelli della morte:
erano dubbi con le gambe storte,
dubbi di gusci d’uovo, dubbi di sorte,
erano dubbi senza più misura
che dio leggeva nella sua tonsura.