Si chiama Ciprian Marica ed è un calciatore rumeno. Bene, direte, ma chi se ne frega? Ci frega per questo: Marica, che giocava in Germania, viene acquistato dal Getafe, una squadra spagnola. E da quando gioca in Spagna si chiama solo Ciprian. Marica, in spagnolo, significa frocio; ve lo immaginate un mondo cementato di machismo, come quello del calcio, che celebra i dribbling di un frocio, le reti di un frocio, le vittorie di un frocio? Non ce lo immaginiamo, e così Marica si dimezza. Abbandona mezza identità per continuare a fare quello che gli piace. Anche dove esiste, come in Spagna, una legge per le unioni gay, l’omofobia non cede di un millimetro, soprattutto in ambienti dominati da una visone strutturalmente misogina del mondo. Un’omofobia talmente cieca che non solo rifiuta l’oggetto, ma perfino il suo nome: o forse soprattutto il suo nome. La parola disturba più della cosa perché più profonda. Scava nella mente e la penetra. Dare nome alle cose vuol dire farle esistere e dar loro dignità. Non nominarle vuol dire cancellarle. Cancellare mezzo uomo per affermare la propria nullità.