A me, la capitale mi ha fregata con la fotogenia.
Mi ci sono trasferita controvoglia, da Milano, sedici anni fa, fresca di un infarto cocleare che mi ha resa semisorda, e ipersensibile ai rumori, che il mio cervello riceve in forma di dolore, spesso intollerabile.
Ho vissuto un paio d’anni – i tappi nelle orecchie – in casa, a leggere. Ogni tanto scattavo sporadiche fotografie dalla finestra, con la Canon Eos. Albe mirabili in una iride di pastelli, e una skyline lontana, delineata di secolari pini e di una villa Medici candida, eppure pronta a trascolorare in fucsia o turchese secondo la luce. Ma se provavo a uscire, pur corredata di tappi, Roma mi ricacciava indietro con le sue urla, i clacson, le mille ambulanze a sirene spiegate, i bar, negozi e taxi muniti di musica a palla.
E poi. No, non sono guarita, è migliorata la qualità dei tappi, ora sono in silicone, e costruiti su misura. Ho aumentato i giretti nel quartiere, il telefono in tasca. Che cieli, ‘sta fottuta città. Che colori saturi, che sfumature ambrate, che verde improvviso e intenso in ogni stagione. Io, clic, dapprima col Nokia. Il telefono cellulare nel quale non parlavo, ma con cui potevo scambiare SMS e scattare foto non spregevoli.
Poi è arrivato lo Smartphone – leggero, altro che la quintalesca Canon. Con Smartphone in tasca e tappi buoni ho preso a camminare la città. Una mano amica mi segnava percorsi meno rumorosi. Il Tevere, con il lato affettuoso e carico di famiglie a spasso, e quello selvaggio di foresta. I germani reali che nuotano indifferenti allo strombazzare del traffico sopra le loro teste. Mille sfumature di giada, riflessi di topazio nell’acqua.
È arrivato infine il tablet, col suo grande formato, che mi permette di controllare l’inquadratura come avessi in mano un banco ottico leggerissimo.
Luci di taglio, tramonti di cristallo, Roma la maledetta in tutta la sua porca bellezza. Gente per strada, vita colta mentre si svolge, bancarelle affollate di sogni, negozianti seduti tronfi fuori dal loro locale, tavolini – tavolini ovunque con gente che mangia a ogni ora, famiglie a spasso la domenica coi neonati in carrozzina. E turisti, pressanti, noiosi, ridicoli: ma tutti immersi in una loro estatica felicità. Lì in mezzo mi mimetizzo, attaccata al mio strumento digitale – a volte intenta a immortalare lo stesso inebriante scorcio di fiume-ponte-colle-cupola che vedono loro, a volte puntata proprio sui turisti stessi, a rubare la gioia su facce di ogni forma e colore. Street photography, credo si chiami così. Per me, è la vita.
L’ultima foto l’ho scattata con paura, pochi giorni fa, in mezzo a un rumore di fondo che superava ogni difesa e arrivava da ogni dove. Campo dei Fiori, dorata, improvvisa. Gente che la vive, immemore di sé. Io resisto. Colgo nell’attimo una mamma che gioca col figlio, una palla rossa in volo. La stessa assoluta semplice realtà che avevo fermato, in bianco e nero, nel 1976, in Piazza Navona. Roma, nonostante tutto, ha una infinita possibilità di farci credere vivi.
Foto Giovanna Nuvoletti