Eduardo, solo Eduardo
Filumena Marturano abitava qui, in un basso del vicolo San Liborio, ai piedi dei quartieri spagnoli. Qualcuno ti indicherà la piccola casa, stretta in mezzo a tante altre, senza sole. Qualcun altro ti farà vedere l’altarino alla Madonna delle Rose, dove Filumena pronunciò il giuramento ’e figlie so’ figlie. Da un’altra parte, in Via Tribunali 176, c’è una casa enorme infestata dai monacielli. Ti diranno che quella è la casa di Pasquale Lojacono, il protagonista di Questi fantasmi, il balconcino dove prendeva il caffè e chiacchierava col professor Santanna, invisibile dirimpettaio. Durante il periodo natalizio ti porteranno in un qualunque angolo di San Gregorio Armeno, ti mostreranno una capanna e alcuni pastori, e con lo sguardo vispo e arguto pronunceranno la battuta «Te piace ‘o presebbio?» e tu non potrai fare altro che rispondere «No». Il profumo che incontrerai dovunque di domenica, tra i bassi o i palazzi, al Vomero o a Foria, è ‘o rraù, come lo sa fare solo mammà. Eduardo è in qualsiasi luogo in cui ci sia Napoli. Napule è ‘nu paese curioso, è ‘nu teatro antico, sempre apierto. Ce nasce gente ca senza cuncierto scenne p’ ‘e strate e sape recità. Eduardo non ha cognome, come solo i grandissimi a Napoli: Totò, Massimo, Diego. È uno della famiglia. Uno che ha raccontato, studiato, misurato palmo a palmo la sua città, ne ha eternato lo spirito. Per questo i napoletani parlano con le parole di Eduardo, e ogni persona che incontrerai sembrerà uscita da una sua commedia. Napoli è chiassosa ma dai lunghi silenzi. Le pause così prolungate di Eduardo sono il silenzio di una città. Il gusto della battuta, quell’ironia feroce che si trasforma in malinconia. Lo sguardo sornione, la voglia di andare avanti oltre ogni ostacolo, di sopportare le avversità perché domani sarà un giorno migliore. Eduardo è Napoli, la pazienza di una città. Quella facoltà umana che a un napoletano farà sempre dire, con Eduardo «S’ha dda aspettà, Ama’. Ha dda passà ‘a nuttata».
(Corrado Visone)
Il testamento di Eduardo
«Li incanteseme mieje songhe fernute, chellu ppoco de forza ca me rummane è propeta la mia, nun sulamente è poca ma purzine debbule assaje».
Prospero si congeda rivolgendosi direttamente al pubblico, riveste i panni del duca e depone la bacchetta sul proscenio. La grande magia è compiuta. Cala il sipario sull’ultimo dramma di Shakespeare. Cala il sipario sull’ultima opera di Eduardo, la traduzione in napoletano della Tempesta. È il dicembre del 1983. L’opera non andrà mai in scena, se non in una versione per burattini con la sua voce registrata che interpreta tutti i personaggi, perché ormai Eduardo non c’è più.
Il capocomico dalla cattiveria proverbiale, il direttore temutissimo per le angherie e le crudeltà nei confronti degli attori, “il diavolo”, come amabilmente lo chiamava Tina Pica, consegna ai posteri il suo testamento. Ed è una sorpresa.
La sua Tempesta è un mea culpa sul letto di morte. Il drammaturgo rispolvera il napoletano seicentesco della tradizione letteraria e lo reinventa completamente, ne fa una lingua nuova, duttile, musicale, fatta di parole piane, sottesa da un instancabile sforzo di espressività.
È un travestimento linguistico che insospettisce, che fa pensare a un pentimento tardivo.
La verità dell’Arte è nella forma ed Eduardo sembra consapevole, non senza amarezza, che i personaggi delle sue commedie hanno solo finto di parlare napoletano. Lo hanno fatto per farsi capire, per avere fortuna, per avere successo, anche in televisione.
Con un ultimo colpo di teatro, il drammaturgo butta a terra le pareti del tinello dove le famiglie discutono del ragù, demolisce i balconi che servono solo per le tirate sul caffè, scoperchia i bassi della borsa nera e i salotti della buona borghesia. Nel teatro di Eduardo finalmente si vede il cielo, finalmente ci piove dentro.
(Salvatore Ronga)