Conoscevo una ragazza che si vergognava di tutto. Dei suoi capelli indomabili che nulla avevano a che fare con quelle meravigliose nappine di seta che si usano per legare le tende e che scorrevano tra le sue dita, regalandole un senso misto di piacere e invidia.
Si vergognava delle due protuberanze simmetriche che gonfiavano giorno dopo giorno sotto il suo naso, facendosi beffe del corpo da maschietto, privo di quelle rotondità che dovrebbero corrispondere in centimetri al giro seno.
Asimmetrica come un salice che cresce senza regole, si nascondeva alla vista altrui sotto maglioni sformati come fossero tepee che la proteggevano dal giudizio e dalle cattiverie adolescenziali. Ma l’adolescenza e i suoi drammi per qualcuno finiscono, prima o poi.
La vergogna no.
Resta appollaiata in un angolo della faccia, credo, perché poi sbuca fuori all’improvviso sulle guance, senza avvisare, tradendo colori che improvvisamente virano al rosso.
Non è vero che i successi e le gratificazioni vincono la vergogna.
È un ospite che non se ne va dopo due giorni e due complimenti. E puzza. Si mette tra te e il mondo. Ti fa stare in coda, ti fa nascondere anche il bello per paura di far uscire fuori il brutto.
Diventa come il glutammato di sodio che fa assumere a tutti i cibi che prepari lo stesso nauseante, riconoscibile sapore.
Poi impari a cucinare senza.
E non è più la solita minestra. Ma tornando alla persona che ho rivisto da poco, ho notato le sue guance, ancora infuocate, ma stavolta era fard.
Ho visto finalmente una donna svergognata. E ho riso con lei.