La moda dei tatuaggi tra i calciatori

Tatuaggi e calciatori

I marinai, i carcerati, i portuali non facevano una bella vita. I tatuaggi che segnavano la loro pelle erano ricordi dolorosi, appartenenza a un destino avverso, segni di avventure in cui rischiavano la morte, di forza bruta talvolta e amori lontani. Il corpo disegnato indelebilmente narrava esistenze vere e dure, destini miserandi. Era testimonianza.
La grande domanda filosofica dell’oggi, allora, qual è?
Perché i calciatori si impiastricciano di minchiate braccia, gambe e torso? Che parentela hanno con la simbologia dei derelitti di cui sopra? Date, nomi di figli, icone guerriere, disegni stile maori, è un proliferare di estrinsecazioni a uso pubblico, televisivo, l’esaltazione dell’immagine. Il calciatore come guerriero, nella battaglia del campo di calcio, fa ridere i polli. Dello stesso tenore sono le creste da mohicano metropolitano, l’ossessione per il capello alla moda che cambia di anno in anno, in una sovraesposizione mediatica che si tinge, insieme all’eccesso di un ego spropositato, di ridicolo. Figli della richezza, i mohicani girano in auto di stralusso, i tatuati vanno in discoteca fino alle cinque del mattino; non ricordano amori infelici o impossibili, ma godono di una fama esagerata presso un pubblico femminile di sgallettate che li guardano come divinità, e una generazione giovanile che li copia e li idolatra nel desiderio di immedesimazione di celebrità e del tutto e subito. Nel mito della ricchezza tutta e subito, sono attori che inscenano se stessi. I tatuaggi e le pettinature osé sono il timbro più facile per garantirsi un senso ulteriore, o comunque il senso di essere uomini con un’identità, oltre che calciatori. Qualcuno vuole dir loro che non c’è bisogno di ulteriori mistificazioni?

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