Per 55 anni Operaio alla Terni

Nel mio archivio c’è questo ricordo. Da tempo avevo deciso di pubblicarlo quando ci fosse stato l’accordo alle Acciaierie di Terni. Leggete e capirete perché. L’accordo non fa fare salti di gioia ma consente alle Acciaierie di vivere e lo consente, così, anche a Terni che – senza acciaierie – non si riconoscerebbe.

La mia non era una famiglia di comunisti. Si considerava comunista mio nonno materno. Anzi social-comunista, come si diceva all’epoca. Al PCI mai stato iscritto, men che mai in rapporto con una organizzazione di partito. Non leggeva l’Unità: leggeva il Paese. Orgoglioso, questo sì, delle sue tessere della CGIL, alla quale era sempre stato iscritto, fin da prima della grande guerra. La grande CGIL unitaria che si chiamava CGdL, quella che gli piaceva di più, che amava di più. E, quelle tessere antiche, che custodiva in un cassetto, me le faceva vedere di tanto in tanto quando, bambino, (sono nato nel ’41), mi raccontava di episodi della sua vita: lo sciopero dei primi del ‘900, quando fu ospitato per solidarietà da una famiglia di lavoratori di Milano; la mussoliniana “quota 90” e le conseguenze che ebbe sui magri bilanci delle famiglie; il primo discorso di Mussolini trasmesso via radio alle acciaierie Terni; l’orgoglio per aver trovato il modo di riparare la perdita a una pressa, cosa che neanche gli ingegneri erano riusciti a fare.

Mio nonno era un operaio, delle acciaierie Terni, appunto. Lo è stato per cinquantacinque anni. No, non è un errore, né una sbruffonata. La sua famiglia si era trasferita da Mercato Saraceno in Umbria, quando in Romagna ci fu la crisi delle miniere. E il padre, minatore, trovò lavoro nelle cave di lignite di Morgnano, vicino Spoleto. Perse la vita in un incidente di miniera. Il figlio (mio nonno, nato nel 1883) aveva dieci anni e, per aiutare la famiglia, fu assunto alle acciaierie che cominciavano in quegli anni la loro attività. E lì lavorò ininterrottamente fino all’età della pensione; che era allora, incontestabilmente, a sessantacinque anni.

Un operaio, fiero di esserlo, della sua dignità, della sua professionalità, del suo ruolo sociale, anche. Abitava in un appartamento modesto, nelle case della “Terni” dette Persichetti dal nome dell’architetto. La domenica indossava l’abito con il panciotto, con l’orologio e la catena d’oro. Elegante, pur nel fisico compatto e robusto che doveva avere allora chi lavorava, anche con la testa, ma soprattutto con i muscoli. Non per esibizione, ma – mi accorgo di ripetere questa parola, e non è un caso – per dignità. Operaio: ma le sue figlie dovevano essere inappuntabili. Ne ho una foto: tre bambine, con i loro vestitini e degli splendidi, ampi colli di pizzo. Sembrano le sorelle di Checov.

Operaio: ma la cultura, importantissima. A scuola aveva appena imparato a scrivere. Ma poi aveva continuato, fino a perfezionare una scrittura bella, ampia, regolare. Un po’ infantile ma perfetta, senza errori di ortografia. E alla scrittura ricorreva tutte le volte che ne aveva pretesto: per scrivere lettere, per tenere in ordine e a memoria gli affari di casa. La scrittura, la lettura, la pipa. Questo era il suo tempo libero. Insieme con il parlare e il riparare gli orologi. Perché l’orologio era al vertice della meccanica, cioè del paradiso dell’operaio, il luogo della sua nobiltà. Non c’era la TV, e – per molti anni – neppure la radio. Ma la cultura era importante. Tanto che si faceva, con tutta la famiglia, perfino qualche puntata a Roma, all’Opera. Doveva essere stato un evento, se mia madre, dopo trent’anni o più, me ne parlava ancora.

Mio nonno è stato importante per me. Mi ha insegnato anche qualcosa di politica. Come quando Nenni andò al governo: Nenni, uno degli uomini che ammirava e di cui si fidava. La prese male. E, parlandomene, mi fece anche una lezione di strategia, come la intendeva lui. Mai, mi disse, bisogna abbandonare il terreno su cui si tengono ben piantati i piedi se, prima, non si è sicuri che il nuovo punto di appoggio sia ben solido. Bisogna procedere così, con prudenza, senza avventatezze. Ma bisogna mantenere una direzione coerente, anche quando il cammino si fa difficile. Non si deve cambiare strada. E, invece, Nenni – secondo lui – l’aveva fatto.

Ecco, questa era la persona “social-comunista” che io ho avuto in famiglia. Di libri ne ho letti tanti: ma una esposizione del riformismo e del gradualismo altrettanto semplice e chiara non l’ho trovata.

Quando abbiamo fatto la svolta, e abbiamo pensato di cambiare nome al PCI, sono stato a lungo, nella notte, a pensare e a interrogarmi. La domanda decisiva per farmi assumere un orientamento fermo è stata: “Cosa direbbe – mi sono chiesto – mio nonno”. Ho cercato di ascoltarlo e di ascoltarmi. E quando mi sono sinceramente risposto che sarebbe stato d’accordo, non ho avuto dubbi e sono andato avanti.

 

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