Foto Nuvoletti Grafica Suadoni

Gatto Bingo

Erano gli anni ’80, e io viaggiavo in uno schoolbus giallo trasformato in casa viaggiante: motor home, come si diceva in America. Vivevo proprio lì, tra il Messico e la California, più Messico, in verità. Però Bingo l’ho incontrato in California, esattamente a Eureka, in un canile. Allora viaggiavo con una fanatica dei cani e nel Camiòn ne vivevano tre. 

«Voglio un gatto»

«Perché?»

«Perché se no ti scarico al prossimo incrocio insieme ai tre pulciosi»

«E come pensi di farcela a guidare questo mostro di dodici metri da sola?»

«Trovo un amante dei gatti alto un metro e ottanta»

Eureka era a venti chilometri e lì ci fermammo.

Bingo aveva sei mesi, era nero con macchia bianca sul petto: niente di speciale, solo era il mio gatto.

Cominciò la discesa verso il Messico. Dovevo incontrare mia madre e una cara amica a Puerto Vallarta, e poi Città del Messico, e poi ancora a sud Chapas, Palenque, e poi. Lungo, lungo viaggio.

Bingo fu subito amico, subito con me in ogni cosa. Dormiva sotto la mia zanzariera e andava ghiotto degli spaghetti al pomodoro che cucinavo. Mi seguiva nelle passeggiate, anche le più impervie.

A Puerto Escondido, en una noche de pachanga, lo lasciai ben chiuso nel camiòn. Due chilometri più avanti, sulla spiaggia, dentro un locale di danze e drinks, lo trovai vispo e assai sornione sotto il mio tavolo.

«Ma che cavolo…?»

Uno dei giovani della nostra compagnia mi suggerì: «Lascialo venire con noi. Vedrai che non gli succederà niente».

E così per tutta la notte tra spiagge, falò, musiche, danze e amori Bingo fu con noi, insieme a noi, e quando mi risvegliai a giorno ormai inoltrato era lì, sotto la zanzariera, con me.

Come quasi tutti i gatti odiava viaggiare e, quando il camion era pronto per una nuova partenza, spariva. Allora era tutto un richiamo, sia da parte di chi viaggiava sul camion con noi, sia di vicini e osservatori. «Bingo, vente, su Bingo come on, Bingo aqui Binguito».

Di solito, dopo sgolature di mezze ore, si mostrava in lontananza, si sedeva sospettoso e dopo lunghe promesse – «Pappa Bingo, buona pappa, buonissima pappa, guarda qui» sventolando bistecchine e filetti di pescado con cui cercavamo di abbindolarlo – si faceva convincere e si degnava di salire solenne i tre gradini che portavano alla cabina di guida.

Poi, per gravi motivi, fui costretta a tornare in Italia e per qualche mese di Bingo non ebbi notizie.

Al mio ritorno sull’isola di Cozumel mi dissero che Bingo era morto.

Si è lasciato andare, non voleva più vivere, non mangiava, piangeva sempre.

Nell’ultimo ricordo che ho di lui ero seduta sulla spiaggia a Playa del Carmen e sapevo che il giorno dopo sarei partita; il tramonto faceva male al cuore per l’insopportabile magnificenza, e vicino a me si accovacciò lui.

Restammo a guardare la caduta del sole in mare.

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