Bit people

Mio figlio Alessandro è contrariato perché lo screen del mio smartphone non è touch. È un vecchio modello aziendale, che vuoi farci. Sfoglia lo schermo col dito e non succede niente.
Allora afferra quello di sua madre e in pochi istanti, forse meno di quanti ce ne vorrebbero a me, ne scaturisce la sigla di Pingu.
Non un cartone a caso. Il suo preferito.
Alessandro sta per compiere due anni. Non è un bambino prodigio. È semplicemente un nativo digitale. E il suo dito è ciccioso.
E io improvvisamente mi rivedo magro, coi capelli, cravattino stretto e giacca con le spalline, ascoltare con diffidenza quel tizio che con parole oscure c’illustrava il funzionamento del primo computer aziendale, poco meno che un database.
Perché io sono un immigrato digitale. Un boat people del bit.
Chloé, mia figlia adolescente – perché non mi faccio mancare nulla – posta online il suo indirizzo di blog con la stessa naturalezza con cui noi scambiavamo via, numero civico e c.a.p. Busta, francobollo, buca, attesa. È un dibattito che esiste da quando esiste la modernità, almeno da quando la locomotiva per alcuni era strumento del demonio. Ma questa modernità, come direbbe Orwell, è un po’ più moderna delle altre.
Per un immigrato digitale cresciuto con l’Aurora e l’Olivetti Lettera 32 e la cui alfabetizzazione digitale è andata di pari passo con la diffusione dell’informatica stessa, digitare queste parole sulla tastiera virtuale del tablet è ancora un piccolo prodigio vagamente imparentato con la stregoneria. Ma una normalissima finestra tattile per un nativo di nemmeno due anni.

Osservo i miei figli rapportarsi col mondo attraverso queste finestre con assoluta disinvoltura, e mi rendo conto di quanto sia cruciale riuscire a comunicare con loro in una lingua comprensibile, che distingua il mezzo virtuale dal contenuto reale. E forse, per far questo, uno dei modi è anche far capire ai nativi che i bit non sarebbero esistiti senza la Bic. Che davvero non basta un click a far esistere la musica che scarichiamo dal web.
E sono sollevato vedendo Chloé passare più tempo a cavallo che su facebook, andare a teatro dopo aver scaricato sull’iPad l’ultima puntata di C’era Una Volta, impaginare con Powerpoint la sua ricerca su Maupassant.
E se Alessandro si addormenta al suono di un carillon meccanico, stretto a un coniglio di peluche invece che alla finestra tattile, pensando di stare abbracciato a Pingu.

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