Mia madre, l’ultimo film di Nanni Moretti

Manifestanti in piazza picchiati brutalmente dalla polizia. Una fabbrica con centinaia di operai venduta a un’azienda straniera. Il nuovo proprietario che promette tagli e licenziamenti. Crisi economica, disoccupazione, precarietà: sembrerebbe il tema dell’ultimo lavoro di Nanni Moretti. Ma non è così e l’impressione è subito fugata da quello “stop” gridato dalla regista alla troupe. È solo la scena di un film, pure venuta male a giudicare dalle perplessità di Margherita, la regista, che si agita, s’arrabbia, trova difetti nella recitazione di attori e comparse. E l’arrivo della star americana (un bravissimo John Turturro) che dovrà interpretare il nuovo padrone complica ulteriormente le cose. Barry, divo capriccioso e instabile, dimentica le battute o le pronuncia a modo suo, suscitando gli scoppi d’ira di Margherita. Che è regista di fama ma con una vita privata allo sbando: divorziata, con una figlia adolescente che va male a scuola, un amante appena mollato e, soprattutto, una madre malata, degente da tempo in ospedale. Ad aiutarla nell’assistenza all’anziana genitrice il fratello Giovanni (lo stesso Moretti), mite e premuroso. La vita di Margherita si consuma stancamente tra le snervanti riprese del film e le corse al capezzale materno. Giovanni e Margherita che quasi si scambiano i ruoli tradizionali di figlio e figlia: lui che si mette in aspettativa per curare la madre, lei sempre più assorbita dal suo lavoro.

Un film nel film, Mia madre (Italia 2015), come tutte le opere del regista romano, è di non facile lettura. Non ha come tema la crisi che, come abbiamo visto, è solo un pretesto per inquadrare il mestiere di Margherita. Nemmeno la famiglia, che è solo abbozzata in funzione dell’inquietudine e delle preoccupazioni di Margherita: l’ex-marito assente, la figlia svogliata, il fratello cui appoggiarsi nei momenti di bisogno. Il tema è la madre, ex-insegnante di materie classiche, la sua malattia, il suo decadimento fisico e psichico. Ma è come se questi piani rimanessero distanti e non collegati tra loro. I continui flash-back che sono forse sogni o viceversa, confondono ritmi e sensazioni. Dimensione onirica e reale creano sì emozioni, anche intense, come nella scena della casa allagata, ma il ricorso al simbolismo è quasi di maniera. Anche le straordinarie interpretazioni di Margherita, una Buy nevrotica e insicura, e di Ada, la madre, una grande Giulia Lazzarini, non riescono a dare un’impronta unitaria al film. Che non ha né la dolorosa introspezione de “La stanza del figlio”, in cui il protagonista riesce a cambiare se stesso dopo la tragedia che l’ha colpito, né la geniale intuizione di “Habemus Papam”, quasi una premonizione della nomina al soglio pontificio di un Papa diverso.
Come sempre il giudizio sulle sue opere divide critica e spettatori. Chi grida al capolavoro, chi non nasconde di aver trovato il film lungo e noioso; chi ha pianto e s’è commosso, chi non s’è sentito affatto coinvolto. Perché Moretti è pur sempre Moretti ed è come se lui stesso con quella fulminante battuta di “Ecce Bombo”, «mi si nota di più se vengo e me ne sto in disparte o se non vengo per niente?», avesse dato al pubblico due opzioni: amarlo senza condizioni o ignorarlo per sempre.

 

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