Nel maggio del ’91 andava in onda l’ultima puntata di Dallas. Mi diverte ricordare questa Saga degli Atridi con i cappelli da texani al posto delle corone, l’eterna lotta tra il primogenito perfido e il secondogenito buono, come Caino e Abele.
Sue Ellen mi faceva impazzire, bella e infelice, sempre con un drink a portata di labbra e gli occhi sgranati. A mia nonna piacevano Bobby e Pamela. «Che bella coppia che sono!» ripeteva, come se parlasse di persone e non di personaggi. Quando i due ebbero i primi problemi e divorziarono, mia nonna non c’era più, e io mi sorpresi a pensare che era meglio così, perché la poveretta non avrebbe retto. Oggi ne rido ancora.
E poi c’era la sigla, con l’entrata di Southfork Ranch, e il motivetto che metteva di buonumore e dava la carica come un’ouverture wagneriana ma senza meditabondi risvolti riflessivi.
Viva Dallas, con le spalline, le teste cotonate e l’elogio del profitto e della cattiveria immorale che affascinava noi italiani: eravamo un pubblico ancora così ingenuo da immaginare che quel mondo fosse solo di finzione e non un modello di vita, come invece sarebbe accaduto di lì a qualche anno.