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Kikí Dimulà l’immagine si fa lingua

Fotografia 1948

Ho un fiore in mano forse.
Strano.
Nella mia vita deve esserci
stato un giardino un tempo.

 

Nell’altra mano stringo
una pietra.
Con fiera grazia.
Nessun sospetto
per preavvisi di mutamenti,
sentore di difese piuttosto.
Nella mia vita deve esserci
stata ignoranza un tempo.

 

Sorrido.
La curva del sorriso,
il cavo del mio umore,
somiglia a un arco ben teso,
pronto.
Nella mia vita deve esserci
stato un bersaglio un tempo.
E predisposizione a vincere.

 

Lo sguardo affondato
nel peccato originale:
assapora il frutto proibito
dell’attesa.
Nella mia vita deve esserci
stata fede un tempo.

 

La mia ombra, nient’altro che un gioco del sole.
Addosso un’uniforme d’incertezza.
Non ha ancora fatto in tempo a essermi
compagna o delatrice.
Nella mia vita deve esserci
stata abbondanza un tempo.

 

Tu non ci sei.
Ma se c’è un precipizio nel paesaggio
se io sto sull’orlo
con un fiore in mano
e sorrido,
vuol dire che da un momento all’altro arriverai.
Nella mia vita deve esserci
stata vita un tempo.

 

“Fotografia 1948” di Kikí Dimulà letta da Anna Toscano

 

Oblio e perdono, intero e spezzato, presenza e assenza, un universo di ossimoro e antitesi la poesia di Kikí Dimulà, così come la vita di cui è portavoce. Una poesia autobiografica che mette in versi il quotidiano, parla di un mondo interiore composto di oggetti e gesti umili, narra di un mondo psichico teso a riordinare e scomporre la narrazione della vita. In questa poesia gli oggetti sono indizi di una vita dimenticata e aiutano a presupporre un passato: una fotografia parla di ciò che è stato attraverso le cose e da qui il tentativo di ricostruire predisposizioni, sogni, desideri. L’unica certezza in questa fotografia è l’assenza di un tu: entra in campo il tempo che scorre, il tempo dell’attesa di un ritorno che annienti l’assenza. Poi il precipizio, l’orlo del precipizio, il non tempo a incombere. Il meraviglioso espediente di un elenco di presenze per rintracciare assenze, e la constatazione di un’assenza viva e presente. Kikí Dimulà spesso costruisce i suoi versi per sottrazione, toglie per mettere in evidenza, qui è la sottrazione della memoria che mette in primo piano l’assenza: l’unica vera mancanza è la presenza dell’assente. L’intero è frantumato dal tempo che scorre, che non si ferma, da un tempo che l’attesa rende insopportabile; l’intero è spezzato dall’assenza e solo l’oblio, il non tempo, potrebbe salvare un io Intero che però non riesce e non vuole ricomporsi, non vuole seguire le regole, non vuole migrare quando è ora di farlo. L’intero parcellizzato come polvere che, nonostante il continuo di battere e pulire, non viene mai eliminata. Poesia che nasce dall’immagine e parla per immagini: la fotografia si fa lingua. Nelle liriche di Kikí Dimulà la fotografia diviene lingua nel descrivere, narrare, fermare, un mondo interiore che non sottostà a regole ufficiali: “E’ tempo di partire, uccelli. Preparatevi/ […] / Non vi seguirò, ci ho ripensato. / L’esempio salvifico è per me un / viaggio troppo lungo, stancante. / Non per tutti è facile la ricerca / di un piccolo nido d’istinto più sicuro.” La lingua, la scelta lessicale, sintattica e grammaticale, segue le regole del mondo interiore: nascono in tal modo microcosmi inediti che parlano in poesia di una parte di ognuno di noi.

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Kikí Dimulà, L’adolescenza dell’oblio, a cura di Paola Maria Minucci, Milano, Crocetti Editore, 2000

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