L’arte della fuga

Come un serpente
appendevo la pelle alla gruccia
e scivolavo lungo il bordo del lavello,
opaco e spento,
ruvido di caos, come una stella
vinta dai plié,
o dai jeté, o dalla forma cruda
dello specchio
che riproduce il dubbio
e lo moltiplica.
Nel corridoio sentivo la tua voce,
cantavi una canzone incomprensibile,
senza motivo, senza melodia,
una canzone di muti stillicidi,
di stalattiti, d’ansie di matricidi.
Chiuso in cucina,
Bach disegnava fughe al clavicembalo,
esercitava lo spessore delle tazze
di porcellana ornate di grifoni.
“Ricorda i fiori”, dicevi mentre uscivo,
ma io riaprivo la porta all’improvviso
e ti scoprivo china sopra il tavolo
mentre leggevi una tabella logaritmica.
“Nascerà a luglio”, dicevi alla teiera,
e non capivo se parlassi della luna,
del gatto zoppo o dell’ignoto dioscuro
che scandagliava le profondità
dei tuoi meandri.
Correvo fuori,
inciampavo in una foglia,
una lumaca mi teneva per la mano:
“Tu, apocrifo lettore,
mio simile, mio flagello”.
Ma non avevo il tempo di
rispondere, sentivo l’acqua
stringersi sul mondo,
l’aria disperdersi, la luce deformarsi
e il muto dioscuro
vagire nel tuffarsi.

 

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