I pazzi li ho visti la prima volta nell’estate del 1990.
Mi era capitato di incrociarne, prima. Di quelli innocui, lasciati alle loro case e alla città, persi nel borbottare continuo, negli sguardi fissi, in un andirivieni da consumarsi le suole. Il loro nome appiccicato a un soprannome li distingueva senza possibilità di equivoci.
Questi erano diversi. Rinchiusi, uguali nell’aspetto. Anonimi. Erano solo i pazzi, sovente affacciati alle finestre sbarrate, le braccia protese in fuori come arbusti rampicanti. Qualcuno era lasciato libero, inoffensivo sostava sul muretto all’ombra degli alberi o a ridosso di una siepe, almanaccando senza posa, maniche lunghe sulle dita a disegnare parole che io non riuscivo a intendere.
Taluni, dicevano, non erano affatto pazzi quando li avevano portati lì, ma poi lo erano diventati. Sentivo raccontare che, soprattutto in passato, non solo i matti vi erano finiti, ma anche soggetti “scomodi”, adultere o ragazze madri, omosessuali. La facilità con cui sembrava si potesse finire internati per volontà dei familiari mi atterriva. Eppure volevo sentire, sapere.
Erano i pomeriggi torridi del viavai tra casa e ospedale, alloggiato allora negli edifici del manicomio. Qualche conoscente, cercando notizie circa il ricovero, chiedeva candido: «Dove sta, al manicomio?». Sorrisi divertiti scivolavano sui visi crespi, fuggenti.
Un nostro parente lavorava lì, e capitava che mio padre si fermasse qualche minuto a scambiare due chiacchiere nel silenzio della controra, mentre io piluccavo un gelato che mi portava a prendere ogni giorno, proprio nel cortile dei pazzi.
Addentrandosi nei padiglioni, i lamenti erano il primo suono, un po’ cantilena un po’ protesta, stridore netto contro il silenzio perpetuo dell’ala riservata ai degenti. Qualche volta si udiva una risata, nitida e sguaiata. Un giorno vidi cadere degli indumenti al di fuori delle inferriate dell’ultimo piano, ombre di genitali nudi e braccia diafane riempirono il vano del finestrone, gemiti ferini scagliati contro la nostra libertà d’aria aperta e il mio Croccante all’amarena.
Avevo tredici anni, li osservavo con un misto di terrore e fascinazione.
L’aria canicolare tremolava sui tetti delle auto e sull’asfalto, a un certo punto i passi ci riportavano indietro, verso la camera al secondo piano. Galleggiavamo sospesi e incerti nel pomeriggio di cicale, in faccia alle tapparelle abbassate per tre quarti; non ricordo cosa dicessimo. E poi salivamo, a ritrovare il sorriso sfinito di mia madre, sfatto come certi fiori che ancora evocano la bellezza trascorsa.
Qualcuno aveva sistemato in un angolo un televisore, del tipo portatile con l’antenna da regolare a mano. Era l’estate di Italia ’90: certe sere si udivano boati di esultazione o protesta correre per i corridoi, qualcuno urlare «Squillaci!» seguito da rettifiche divertite: «Schillaci, papà!».
Fuori dalle finestre si rovesciava un’allegria insolente, a spaccare la compunzione cui quel luogo sembrava votato.
Bisognava tenersi vivi.