Mio padre ci portava in alberghi familiari

Mio padre ci portava in alberghi familiari. Diventava amico delle proprietarie, ordinava al mattino il pesce e parlava con loro con le chiavi della camera in mano. Lo aspettavamo pazienti, bisognava andare a vedere chiese e pregare nell’ombra delle volte romaniche. Poi lui cominciava a gridare. Intorno, il mare, i pini di Napoli, i golfi dell’Adriatico, i battelli bianchi dei porti del Tirreno. E la sua voce tuonava. Minacciava di andar via, di fuggire con la sua Giulietta. Ad Assisi seguiva i francescani e si toglieva le scarpe, accarezzava certi cani lupo e si confessava tutte le mattine. Credevamo ci lasciasse per sempre. Pensavo di restare sola in mezzo alle piazze d’Italia, nel deserto di quegli anni, lungo autostrade nuove, negli autogrill dai pavimenti di marmo e dalle porte di vetro. Sceglievo collane di coralli ad Amalfi, salivo scalette bianche e immaginavo di morire da un momento all’altro, lì, nei posti che più mi piacevano, nei ristoranti silenziosi, davanti a un piatto di spaghetti, sugli scalini di un santuario, nella hall di un albergo scintillante, adagiata sulla sabbia nera della Calabria, in solitudine eterna. E tutto finiva in un sonno agitato. La sua voce ora calma, le tovaglie di lino dei tavolini dei bar, la sua camomilla fumante nella calura. Chiudevo gli occhi e non piangevo. Pensavo che una guerra ci avrebbe distrutto. Mia madre cantava e metteva una crema sul viso. Il suo urlo nei sogni, negli incubi notturni, dopo giornate di fuoco. Eravamo questi. Nel bello dei luoghi, nella sua follia. Nelle sue preghiere. Nelle mie, disperate. Noi.

Mio padre sfornava biscotti tutti i pomeriggi. In una nuvola di farina e vaniglia e cannella. Gli stavo accanto, lo guardavo imbestialirsi e dannarsi con un desiderio infinito di calma. Pesava, impastava, imburrava, velocissimo e poco attento. Mia madre cambiava stanza. Non si sentiva compreso. Accumulava stoviglie che poi avrebbe lavato per ore cantando canzoni antichissime. Mentre il forno cuoceva i suoi dolci. Li avremmo mangiati, ma avremmo fatto a meno di quei pomeriggi esaltati. Quando finiva non era stanco, tirava fuori dal cassetto preghiere e immagini e santi e declamava nel silenzio dell’appartamento. A volte scendeva sotto casa, dove la vallata aveva inizio, e lì pregava da solo, con la sua voce alta e nervosa. Tornavo nella mia stanza, affacciata alla finestra lo vedevo andare e perdersi fra il fogliame della campagna vicina. La requie finalmente. I biscotti imperfetti sul tavolo, l’odore della marmellata cotta, della pasta lievitata, delle spezie, lo zucchero leggero e la fine di tutto. La fine di quelle giornate. Il libro che mi attendeva, i libri che attendevano lui. Che per miracolo stava seduto e leggeva, pensando e pensando. Si faceva sera e preparava la sua camomilla. In un rito lungo fra filtri e vapori. La notte dormiva. Mia madre sussultava nel sonno. Io gridavo dietro ai miei incubi. Avevo ormai una stanza lillà, un letto da signorina, i miei abiti allineati e uno specchio per il trucco. Ero grande, o così credevo.

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