Il peso atomico di un’esistenza. Omaggio a Dino Buzzati

 

Erano stati come sempre puntuali. Preceduti di qualche minuto da una telefonata, i facchini del turno di notte arrampicarono la cassa di legno e metallo sino al penultimo piano di quello stabile anonimo e grigio. Andandosene rincararono scala dopo scala la robusta dose di imprecazioni della salita. Nessuno aveva dato una mancia, e da sempre la disillusione esaspera ogni fatica. Da dietro la porta del suo appartamento, una cucina e due stanze, il destinatario era rimasto da solo accanto all’ordigno attivato dal caposquadra. Quegli operai stavano adesso bevendo una birra prima di mettere mano ad un’altra consegna. L’uomo che invece era dentro la casa, da solo, guardava pallido il vuoto al suono del ticchettio della bomba. Lo stesso accadeva in più case, nei vari quartieri, in ogni città della terra. La generazione appena a lui successiva già con naturalezza pensava che sempre così fosse stato e che così sarebbe durato in eterno, perché, si insegnava dovunque, l’impero era immortale e in quel mondo, assoluto e perfetto, anche la morte non era più un accidente imprevisto ma un ordinario dettaglio funzionale a ogni vita, non più importante di un altro e qualunque elemento del nuovo sistema. Qui, sulla terra, nell’anno 200 del Protocollo infinito.

 

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