Seguiamo, a occhi chiusi, la linea che la vita per tutti decide, scambiandoci, a caso, l’uno con l’altro.
E sbaglia anche il posto, la fila, la prenotazione, l’orario di questo moto da luogo di cui ben poco sappiamo: “cosa mangio stasera”, “che cos’hai nelle tasche”, “domani, al più tardi ti chiamo”.
Il tempo, qualcuno usa anche altri nomi che sono svagati, curiosi – il caso, la sorte, il destino che attende in agguato – non ci conosce per nome e non guarda nessuno negli occhi.
Ci conosce soltanto per la forma confusa che abbiamo, non ricorda se portiamo gli occhiali.
Da madre distratta, da orco del mare di Ulisse, annusa la paura tra i capelli e l’odore del sale, contando di sera, al ritorno, chi manca, chi ha fatto naufragio, chi ha avuto fortuna.
E tra il polso e le dita, ognuno ha una sorte diversa.
Per non chinare la testa, per non sentirci dovunque da soli, interroghiamo la strega, le carte, cerchiamo di chiamare il destino per nome.
Immaginiamo costellazioni nel cielo. Ma può essere buono o cattivo il destino, avere anche un nome, e il cielo una sua forma precisa e già data?
Le cose hanno un nome solo perché le pensiamo, e forse esistono pure, anzi senz’altro ci sono: le tiene unite nello spazio un’intrinseca forza che le fa divenire e le trasforma nel tempo.
Ma, diversamente da noi, non sembrano temere la sorte e neanche si sentono sole o perdute. Siamo noi ad avere paura, forse è il mago ad averne di meno, ma solo perché lo paghiamo.
Eppure ogni paura nasconde una forza, anche un po’ smisurata e presuntuosa alle volte, che contro ogni giro di carte ci fa cambiare la vita.