La mostra Bellezza divina. Tra Van Gogh, Chagall e Fontana, allestita a Firenze in occasione del Convegno Ecclesiale Nazionale, cerca di cogliere l’intento dialettico tra religione e arte cristiana nella civiltà occidentale tra la fine del XIX e la metà del XX secolo, in un periodo in cui l’affermazione delle ideologie comuniste da un lato, e l’assolutismo capitalista dall’altro, iniziavano a secolarizzare la società. Per fortuna o purtroppo. Decidete voi. A me non interessa altro che parlarvi di Stanley Spencer e delle sue due tele, che potete ammirare a Palazzo Strozzi, anche se nelle stesse sale troverete Chagall, Guttuso, Rouault, Picasso, le splendide ceramiche di Fontana e, ovviamente, la famosa originalissima copia della Pietà di Delacroix di Vincent Van Gogh (è l’immagine sulla locandina in basso).
L’entrata di Cristo in Gerusalemme e L’ultima cena sono i due quadri del pittore inglese.
Nell’osservarli si ha l’impressione di un incontro possibile, e, per chi crede, di una reincarnazione nel quotidiano. I luoghi del Cristo di Spencer sono un quartiere popolare di una cittadina inglese, probabilmente la sua Cookham, e una mensa.
Cristo uno di noi. È la prima cosa che viene in mente dinanzi a questi quadri. Se ci si pensa, è la stessa cosa che, oltre sette secoli fa, dissero i contemporanei di Giotto dinanzi agli affreschi della cappella degli Scrovegni. Tuttavia in questi quadri c’è una prospettiva diversa. Tutt’affatto materiale, quasi familiare, sospesa tra misticismo e sessualità freudiana, come scrive Carlo Sisi, il curatore della mostra.
«Non sarai nessuno se non amerai te stesso, non giungerai a Dio se non arriverai prima al tuo corpo». Così, nel Vangelo secondo Gesù Cristo, scrive Saramago che sicuramente conosceva Spencer. Nei suoi quadri Cristo sembra l’unico consapevole di se stesso e della sua corporeità, mentre il resto del mondo si muove svagatamente: i ragazzi giocano, le persone corrono indaffarate, gli apostoli parlano tra loro. Tutti paiono come marionette senza cervello ma con il cuore che li spinge a vivere, amare, piangere, ridere.
Cristo tiene il filo dei pensieri, quei grossi gomitoli arrotolati su se stessi, che come dice lo scrittore portoghese nel suo Vangelo, sono lenti in alcuni punti, in altri stretti fino alla soffocazione e allo strangolamento. Nessuno ne conosce tutta l’estensione, bisognerebbe srotolarli, tenderli e infine misurarli, «ma questo, per quanto lo si tenti, o si finga di tentarlo, non si può fare da soli, senza aiuto, dev’esserci qualcuno che un giorno venga a dirti dove tagliare il cordone che lega l’uomo al suo ombelico, dove legare il pensiero alla sua causa».
Il Cristo di Spencer sembra proprio quel qualcuno. Spezza il pane con precisione chirurgica, è serio giudice nella gara di corsa tra un ragazzo e una ragazza (per la cronaca, vince la ragazza), è uomo parte del mondo che è parte di lui. È minatore, disoccupato, ubriaco, ladro, padre, ma anche madre, donna picchiata, figlia abbandonata, prostituta, tossica. Abitante dei ghetti della periferia londinese, come quelli della banlieue parigina o romana, luoghi dove il tempo non passa mai e la storia neppure li sfiora, dove quei pochissimi momenti di felicità sono puri e cristallini come la risate degli angeli