Abitavo a poche centinaia di metri da Piazza Fontana. Allattavo Viola, che aveva venti giorni. Ho sentito sirene in lontananza. Poi ho saputo. Così ho cominciato a conoscere il terrorismo. Noi italiani, in tempo di pace, quel giorno abbiamo capito che c’è chi ammazza persone inermi per ragioni proprie. Le ragioni possono essere mille, l’orrore è uno. Il male puro.
Lunedì 15 il mio giornale mi ordinò di andare a fotografare i funerali delle vittime, in piazza Duomo. Avevo l’influenza, ma non lo dissi. Mi presi un’aspirina, le Nikon con gli obiettivi, allattai mia figlia e insieme a due colleghi mi avviai verso piazza Duomo. Il cielo era nero. La gente piangeva.
Sul Sagrato i vip, i politici le persone importanti con le facce di circostanza issate, e i parenti delle vittime affondati nelle loro disperazioni. I fotografi si affollavano intorno. Io girai, per pietà e per amore, le spalle alla cattedrale e al funerale, e col mio teleobiettivo inquadrai la gente che si affollava dietro le transenne. I “ghisa”, la gente del popolo, i milanesi erano tutti in lacrime. Come anche ero io.
C’era, diffusa in tutta la piazza, un’atmosfera di sgomento, era giorno e pareva notte. Ma nello stesso tempo ci sentivamo tutti una cosa sola, noi, la città con il suo cuore semplice e intelligente, vicini come non mai, una solidarietà assoluta. El mè Milàn. Davvero. Democrazia, libertà, lavoro, i nostri valori.
Tornata a casa scaricai le pellicole e allattai subito Viola; erano passate più di due ore e aveva fame.
Eugenio sviluppò e stampò le foto nel laboratorio sul pianerottolo accanto.
Pochi giorni dopo fui svegliata dal mio compagno che mi sventolava “il Mondo” sotto il naso: una mia foto era in copertina. Tra tutte le immagini scattate dai colleghi maschi, che mi avevano guardata come una pazza che fotografa i nessuno, era stata scelta la mia. Perché avevo visto Milano, col suo dolore e il suo amore.