Io lo odio il capodanno. È il giorno dopo il 30 dicembre, il più spaventoso anniversario della mia vita.
Riempio i bicchieri bolliciosi di stupide lacrime. Dal 1966.
Sto in mezzo alla gente festante e abbaiante, perché la solitudine e il silenzio mi spaventano ancor di più. Ma odio tutti quelli, lì, che ridono, ballano e si divertono. Mi ficco in un angolo con le mutrie malinconiche ─ non sono mai la sola ─ e chiusa come loro nei neri pensieri, mi abboffo di lenticchie di Castelluccio.
Nulla ha senso, la notte ci avvolgerà per sempre. Unico vero è la morte, che ghigna nelle smorfie idiote degli ubriachi, spunta dietro le facce plasticate e impiastricciate delle dame.
Finisce l’anno, e Lei si accoccola alle nostre spalle, paziente.
Il sole è spento e chi l’ha spento sei tu, mamma.
Fuori già turbinano i fuochi artificiali, tagliando la notte infinita, e bottano i botti spaventando i cani, mentre mi tappo l’orecchia.
Rubo del whisky, ché lo champagne fa ruttare.
Urlate, saltate starnazzate pure con quelle boccacce beanti, agitando bottiglie al cielo indifferente, tanto l’anno nuovo non verrà mai, lo avete capito? È sempre quello vecchio che ritorna, e gira intorno a noi – fissi per sempre in una eternità di nulla.
Prosit.