Per molto tempo Ischia Porto è stata una metropoli, come Milano, come New York, come Londra. Mia zia era sarta e ogni giorno andava in un atelier giù a Ischia Porto.
Dopo pranzo lasciava cadere le scarpe, affusolate e con il tacco appuntito, e sprofondava nel divano, i piedi sul bracciolo, un romanzetto tra le mani, la testa sospesa per non guastarsi l’acconciatura. Nella penombra giallastra del soggiorno lo smalto scintillava sulle unghie dei piedi.
Era la zia giovane, quella che lavorava, quella che il sabato sera usciva con le amiche, quella che sorrideva sempre, anche quando qualcosa le andava storto, perché aveva la faccia tonda, gli zigomi alti e un taglio d’occhi allungato, un po’ tartaro.
Non era bella, oggi lo so, ma da bambino mi sembrava bellissima come le presentatrici in televisione, perché portava i capelli corti. Quando tornava dal lavoro non veniva mai a mani vuote: quattro bustine di figurine, un giornalino, una bandierina del Napoli, una qualunque chincaglieria vista sullo schermo, tra una réclame e l’altra. Ischia Porto era un altrove collegato direttamente col tubo catodico, perché ogni giorno lei andava lì.
«Ragazzino», diceva. Ragazzino, non bambino, e io mi sentivo già grande. Una volta mi portò al cinema a vedere King Kong. Sullo schermo Jessica Lange, catturata dagli indigeni, campeggiava adorna di ossicini come una Madonna vendicativa issata sul trono. Non ebbi il coraggio di stringermi alla zia. Volevo essere all’altezza delle sue aspettative, e non dormii per mesi.
Mi sembra ancora di sentirlo, quel «ragazzino», anche oggi, mentre la giornata è già trascorsa, una giornata infinita incominciata anni fa.