Le persone e le cose che conosce sono tutte lì, nella stanza. In “Stanza” per meglio dire. Dentro quelle quattro mura ci sono Ma’, Sedia 1, Sedia 2, Letto, Armadio, Tappeto, Lavandino e Lucernario. C’è anche Pianta che è da sempre sulla mensola, nonostante le foglie siano secche da un pezzo.
Tutti gli oggetti inanimati sono suoi amici e lui, il bambino, li saluta uno a uno, al mattino.
Poi c’è Ma’, ovvio, che lo stringe a sé, canta per lui, con cui fa stretching e prepara la torta per il suo compleanno.
Tutto il resto del mondo, a parte Topo, che un giorno appare furtivo e poi scappa quando Ma’ lo scaccia, tutto quel che è fuori dal suo mondo, è dentro Televisore.
Lo schermo sempre rigato, le immagini sfocate gli raccontano di tutto ciò che non ha mai visto: alberi, prati, mari, monti, cani, gatti e tartarughe e persone, tante persone – tutti esseri e cose inesistenti pensa il bambino – come nella favola di Alice nel Paese delle Meraviglie che Ma’ gli legge la sera per farlo addormentare.
Ogni tanto, di notte, arriva Vecchio Nick, allora il bambino scappa via dal letto di Ma’ e si nasconde dentro Armadio. Si dorme da Dio anche chiusi lì dentro.
Ogni tanto, di notte, arriva Vecchio Nick, allora il bambino scappa via dal letto di Ma’ e si nasconde dentro Armadio. Si dorme da Dio anche chiusi lì dentro.
Tratto dal romanzo di Emma Donoghue Stanza, letto, armadio, specchio (che ha venduto 2 milioni e mezzo di copie solo in Inghilterra ed è stato tradotto in 35 lingue), Room è un film straordinario.
Il regista irlandese Lenny Abrahamson, complice una sceneggiatura scarna e mai pruriginosa, lascia che la storia, avvincente e drammatica, venga raccontata attraverso il punto di vista del bambino. Anche la figura di Ma’, le sue angosce e fragilità, sono filtrate dagli occhi attenti e vivaci del piccolo.
Le implicazioni psicologiche, i risvolti sociali, l’impatto e l’invadenza dei media che pure vengono squadernati all’interno della vicenda narrata, sono sempre e soltanto un pretesto per farci capire cosa succede nel cuore di Jack, questo il nome del bambino.
Il regista irlandese Lenny Abrahamson, complice una sceneggiatura scarna e mai pruriginosa, lascia che la storia, avvincente e drammatica, venga raccontata attraverso il punto di vista del bambino. Anche la figura di Ma’, le sue angosce e fragilità, sono filtrate dagli occhi attenti e vivaci del piccolo.
Le implicazioni psicologiche, i risvolti sociali, l’impatto e l’invadenza dei media che pure vengono squadernati all’interno della vicenda narrata, sono sempre e soltanto un pretesto per farci capire cosa succede nel cuore di Jack, questo il nome del bambino.
Splendida la fotografia, che si sofferma soprattutto sulle misere suppellettili di Stanza: la fogliolina marcia che si appiccica al vetro del lucernario, da cui penetra la luce sporca del mattino e quella scura, talvolta puntuta di stelle, della sera.
Di incredibile bravura Jacob Tremblay che interpreta Jack e Brie Larson nella parte di Ma’, vincitrice del Golden Globe e dell’Oscar 2016 come migliore attrice.
Film coinvolgente, dal ritmo teso, in cui l’effetto claustrofobico viene annullato dalla percezione affettiva del bambino nei confronti dei pochi metri in cui vive. Al punto che, quando passa sullo schermo l’ultima didascalia, vorresti non alzarti, non uscire da quella storia che ti ha fatto soffrire, ridere e piangere fin da subito. Insieme a Jack, Ma’ e Stanza.
Room di Lenny Abrahamson (Irlanda 2015)
Stanza, letto, armadio, specchio di Emma Donoghue (pag. 339 Ed. Mondadori – trad. Chiara Spallino Rocca)