Ray Bradbury, 1920 – 2012

Odiava essere definito scrittore di fantascienza. Diceva che a rigor di logica la fantascienza tratta di realtà, di cose possibili. Diceva che forse fantasy era la parola. Diceva che l’unica cosa che aveva scritto di fantascientifico era Fahrenheit 451, e solo perché il titolo si riferisce alla temperatura alla quale la carta brucia. Diceva di scrivere di miti: Cronache Marziane, per esempio, è mito greco puro. Diceva che per questo era ragionevolmente certo che le sue storie sarebbero durate a lungo. Il mito tende a farlo.

Odiava la tecnologia spinta, diceva che stava uccidendo l’umanità e la vera comunicazione. Odiava Internet e non diede il permesso per la pubblicazione dei suoi libri in e-book se non negli ultimi mesi di vita quando fu costretto a farlo. Temeva che i tempi preconizzati in Fahrenheit si stessero avvicinando a velocità eccessiva.

Era un mago.
Non per modo di dire, era appassionato di prestidigitazione e magia, era anche piuttosto bravo. L’aveva sempre considerata l’unica possibile carriera alternativa.

Era sceneggiatore. Il primo della mia vita di cui seppi il nome: dopo aver visto Moby Dick, avrò avuto sette o otto anni, mio padre mi diede alcuni suoi racconti da leggere. In seguito, visto che lo avevo adorato, mi fece vedere il film tratto da Fahrenheit, e poi mi diede il libro. Gli anni della fenice, era il titolo italiano. Un librino piccolo. Un’epifania.
Non smisi più.

Diceva che se si badasse al proprio cervello, non ci si innamorerebbe mai, non si avrebbero mai amici, non ci si imbarcherebbe in nessuna impresa: si sarebbe troppo cinici per farlo, e sarebbe una scemenza.
Diceva: “Bisogna sempre buttarsi dalle scogliere, e farsi crescere le ali mentre si cade”.

Era un poeta.

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