Fa caldo. Sono le cinque del mattino e sto sulla mia terrazzina, tra le mie piante stente. Non le curo, un po’ d’acqua appena, e loro perdono colore per dispetto. Hanno foglie mosce, fiori penduli. Alba, il cielo è pieno di uccelli e me ne meraviglio. Anche se, in fondo, dove dovrebbero stare? Sono uccelli cattivi, gabbiani che hanno perso la via del mare. Hanno voci di vecchie portiere bizzose che sgridano bambini sciamati sul pavimento appena lavato. Bevo il caffè dalla mia tazza, una cineseria leggera, trasparente. È una sopravvissuta. Caduta, incollata, ricaduta, rincollata. Non vuol saperne di uscir di scena, così la tengo. Rispetto i suoi tempi. E ce ne stiamo, io e la geisha, a naso in su, i gomiti appoggiati alla ringhiera, tra un ex gelsomino e un tronco di cedrina. Come sono brutti, sgraziati, i gabbiani. Ora fanno un giro in tondo, in mezzo ci sono due piccole taccole grigie e nere, che cercano di uscirne, spaventate dai grandi becchi e dalle ali forti. Paiono due impiegati presi in mezzo dai Drughi di Arancia Meccanica. Quale sarà la loro colpa, dove avranno sconfinato? “Ehi!” Mi accorgo che ho gridato, per la gioia dei vicini. Ho gridato ai gabbiani, parché lascino stare le taccole, che il cielo è grande ed è anche loro. È una vita che grido ai più forti dalla mia terrazzina, ed è una vita che non mi sentono. Troppo in alto, troppo feroci. Cerco qualcosa da tirare verso quel cerchio urlante. La geisha è terrorizzata. Poi penso: se la vedano le taccole, magari hanno sconfinato davvero, se la prendano con la Natura. Mica posso fare tutto io.