Al banco del compro oro

Bisogna andarci almeno una volta in un posto come questo. Si trova non lontano dalle sedi di importanti banche, dalla Scala e da antiche residenze di Signori. Una bella zona centrale di Milano. L’ambiente è stretto, il personale cortese, efficiente ed esperto, non una parola più del necessario. Il contatto fisico è inevitabile, si accenna un sorriso amabile ma sfuggente. Le giacche di tweed, le cravatte regimental, i burberry originali e datati portati delle anziane signore sono segno di benessere passato. Nessuno discute sul “cambio” che viene accettato con una gestualità uguale a quando si paga la perdita alla fine di una seduta di poker, quasi a dire «ma figuriamoci, è un gioco e poi queste somme proprio non mi impensieriscono». È un gioco anche questo. Ti trovi di fronte a situazioni che mai avresti creduto possibile sarebbero capitate proprio a te. Qui tocchi con mano sentimenti che avevi solo immaginato.  Dalle tasche e dalle borsette escono piccoli sacchetti, qualche scatoletta di metallo o di legno (crema per baffi, sigarette de luxe…). Tirano fuori il contenuto, se lo guardano ancora una volta e poi viene poggiato sulla bilancina elettronica. Può capitare di notare una mano femminile con lo smalto da rinfrescare. Chissà cosa ha potuto rappresentare quell’oggetto? Nemmeno un piccolo segno di emozione perché questo non è il distacco ufficiale, c’è già stato nel momento stesso in cui la decisione è stata presa con sofferenza. Magari ci hanno pianto nella notte e poi di buon mattino si sono incamminati verso la meta con giri di avvicinamento larghi sebbene le distanze brevi. Entrando hanno incrociato sguardi, fortunatamente, di sconosciuti, tutti lì per lo stesso motivo: il bisogno.
Si prende posto nella coda. Attendono che qualcuno li chiami solo col nome di battesimo e la privacy è salva: Arturo, Stefano, Manuela, Ambrogio, Francesca… Questo è l’unico posto in tutta Milano dove non vedi e non senti chiamare: Alì, Salim, Abdul, Muna, Maysun. Qui ci sono solo quelli che qualcosa l’hanno avuta. Gli importi sono piccoli, non c’è bisogno di pagare con assegno e così si tira un sospiro di sollievo. Si prende il contante e non si portano in giro tracce di questo passaggio. È un sussulto di vergogna evitata, meglio così e poi essere a contatto con danaro tuo e disponibile, anche se per poco, è sempre un piacere.

Pure le frasi che si scambiano nell’attesa hanno lo scopo di cercare, inutilmente, di salvare le apparenze e nascondere il proprio stato che è semplicemente di bisogno:

«Ho pensato che questo fosse il momento migliore per vendere, con oro e argento così alti».

«Mi sono stancato di avere tante piccole cose inutili chiuse in un cassetto, le vendo e mi compro qualcosa che posso mettere ogni giorno».

«Una mia amica malata mi ha dato questo compito, ma se avessi saputo che ti chiedono i documenti…».

«Curo gli interessi di una mia cliente… (234 euro)».

C‘è sempre qualcuno che ascolta e annuisce. Da qui gli oggetti vengono portati in un laboratorio dove subiscono un processo di fusione.

È la rappresentazione finale di un viaggio senza ritorno, qualcosa che è stato tuo sarà distrutto, per sempre.

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