Uno spettro si aggira per l’Europa, quello del “biscotto” tra Spagna e Croazia.
A me, invece, la parola biscotto fa solo pensare all’Osvego, quello che il cavalier Gentilini sfornò nel 1890 nei laboratori di via Alessandria, a due passi da Porta Pia, adattando ai gusti della popolazione del neo regno d’Italia l’oswego inglese, più secco, più insipido, più grasso.
Le kamasutriche modalità di accoppiamento dell’Osvego sono state per me, fin da bambino, fonte di gioco e di delizia. Sandwich di Osvego con strato di burro e due varietà di confetture: albicocca e pesca per l’estate, castagne e cotogne per l’inverno. Un Osvego e un caffè, per chi ha fretta. Due Osvego e una spremuta di arancia per il salutista. Osvego e nutella o nutella in cui affogare infinitesimali briciole di Osvego, per costruire, un mattone dopo l’altro, la casa splendente dei nostri ricordi, quando l’Italia sembrava una e democristiana e quando le nazionali di calcio erano due: una per Mazzola e una per Rivera.
Ora si vocifera del “biscotto” croato, forse al papavero, o di quello spagnolo, certamente un polvorones.
Eppure non capisco che senso abbia parlare di combine quando i calciatori della nostra Nazionale sbagliano in una partita il 30% di passaggi, non tengono la posizione, rilanciano alla viva il parroco e passeggiano sul campo manco fossero alle finali di Miss Mondo. Allora mi domando se sia possibile essere eliminati da una preparazione pasticcera, o se dei morti di sonno si possano sentire feriti nell’italico orgoglio.
I giocatori della nazionale dovrebbero piuttosto pensare ai biscotti che gli irlandesi preparano per il 17 marzo. Piccoli shortbreads a forma di trifoglio. Li assaggino, imparino a scoprirne il gusto. Studino attentamente i modi per aprirsi un varco tra i sapori e colgano l’ingrediente giusto che renda la loro ricetta invincibile.
Io, da parte mia, mi volterò indietro, a osservare quel bambino di 11 anni che il 21 giugno 1970, ai fischi finali dell’arbitro, restò impietrito con le lacrime agli occhi, abbracciato al papà che gli diceva: “Abbiamo giocato benissimo, ma il Brasile è la squadra più forte del mondo!” Lo chiamerò e proverò a distrarlo da quel piccolo dolore chiedendogli: “Ma tu come li mangi gli Osvego?”