Colazione da Tiffany

 

La prima volta fu d’estate. Doveva essere il 1961, o al massimo il ’62, il cinema era uno di quelli all’aperto, in una località di mare, sull’Adriatico. Allora a noi bambini di Roma capitava spesso di andare a passare un mese intero (villeggiatura, si chiamava) in posti del genere. Luoghi favolosi davvero, dove si diventava piccoli uomini lentamente, con soavità. E manco te ne accorgevi.

La decisione di mamma e sorella grande di portarmi con loro di sera, a vedere “Colazione da Tiffany”, dettata probabilmente dalla voglia di non perdere i capolavoro sulla bocca di tutti senza lasciare il piccoletto da solo a casa, fu accolta con tripudio. Detto questo, i ricordi della proiezione sono molto vaghi, anche perché il sonno mi colse presto, prestissimo. Certamente però l’immagine di questa eterea e malinconica fanciulla in abito da sera, commossa davanti alle vetrine di una gioielleria nell’alba newyorchese perforò la corteccia cerebrale del piccino inducendolo, nell’avanzata maturità del presente, di scrivere queste righe.

Il secondo incontro fu televisivo. Importante al punto di stimolare, nel giovanotto, un’azione significativa: l’acquisto, in un luogo semiclandestino il cui indirizzo veniva tramandato oralmente tra cinefili e semplici appassionati, dell’enorme poster del film. Una vera icona d’epoca: c’è solo “lei”, gigantesca, in primissimo piano con un lunghissimo bocchino tra le dita inguantate di nero. L’espressione colta dal disegnatore è la sua, certo. Ma non al 100%; troppo sicura, troppo femme fatale. Lo sguardo di Audrey Hepburn è sempre stato un mare nero in cui dolcezza, impertinenza, ingenuità e malizia convivono pacificamente, senza darsi fastidio reciproco. Un cocktail micidiale per qualsiasi uomo, in primis il buon George Peppard che nel manifesto appare solo in lontananza, avvinto alla sua Holly Golightly (il nome, un capolavoro nel capolavoro) nell’ abbraccio finale sotto la pioggia.

Da ultimo, una notazione. La terza visione del film, sempre in tv verso i miei quarant’anni, è direttamente responsabile della mia modesta attività di giornalista e scrittore. Il momento in cui Holly canta con un filo di intonatissima voce e accompagnandosi con la chitarra, la struggente “Moon river” sotto la finestra del disincantato Paul è la rappresentazione perfetta, direi emblematica dell’istante che tutti noi andiamo, ciascuno a suo modo, cercando: il “click” magico dell’innamoramento.

E mi venne l’idea di scrivere qualcosa sul cinema, sulle sequenze che avessero meglio di tutte restituito l’essenza di tutta la gamma dei sentimenti umani.

Naturalmente non l’ho mai fatto.

 

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