Sono fra quelle che hanno creduto nell’esistenza reale di Amina Arraf, la lesbica siriana di “A gay girl in Damascus”, e non me ne pento. In quel blog la vita di una giovane antiregime, con la sua ribellione, la sua quotidianità le sue fantasie erotiche, finalmente esplodeva verso il mondo, diventando poi anche fonte di informazione per i giornalisti. Sono iscritta a una mailing list di lesbiche palestinesi e la mia idea del mondo arabo è leggermente più complessa di quella dell’ultima Oriana Fallaci: non mi riusciva quindi difficile credere nell’esistenza di Amina. Non avevo dubbi che una gay girl in Damascus potesse r/esistere, informare e creare. Pura stoltezza di credulona del web, la mia?
Poi, in seguito alla diffusione della notizia dell’arresto di Amina da parte dei servizi segreti siriani e alla mobilitazione della rete, l’Huffington Post ha cominciato a metterne in dubbio l’ esistenza reale. La rete si è messa al lavoro, ha indagato e infine scoperto la “verità”: l’autore dei post si chiama Tom MacMaster, è un educatore scozzese ed ha creato l’avatar Amina insieme a sua moglie, Britta Froelicher, ottima conoscitricie delle questioni siriane e attivista di un’associazione pacifista. Non c’è più dubbio: si tratta di un fake, di una falsa identità, di una delle tante creature immaginarie dal nome e dalle caratteristiche inventate che popolano il web dal giorno della sua nascita.
A questo punto i “professionisti” dei media tradizionali hanno cominciato a divulgare la solita solfa, che ben conosce chi lavora e vive sul web: la Rete è inaffidabile, la comunicazione non gestita con la mediazione classica e istituzionale fra media e pubblico non funziona perché troppo falsificabile da bufale, avatar, fake, altre mostruose creature che si sovrappongono alla realtà oggettiva dei fatti. Mi sono subito chiesta, parlando di fatti, quale sia il rapporto reale fra giornalisti e rete. Mi pare che questi saccheggino a piene mani le informazioni del web, quasi sempre rapide ed esatte, e che il caso di Amina, uno fra milioni, sia stato utilizzato per rivendicare alla loro categoria una sorta di primato istituzionale della Verità, mai come in questo momento in crisi. Una crisi probabilmente irreversibile, che può sconvolgere le menti e riempirle di astio verso ciò a cui non sono in grado di adattarsi, o almeno di comprendere.
C’è inoltre una questione forse più importante: quello che ha postato Amina è davvero falso? Per me no. La forza del suo blog non stava nella sua identità reale, ma nella rappresentazione del clima culturale, sociale, politico della realtà siriana. Non solo: Amina guardava le cose da un punto di vista da sempre minoritario anche in occidente, quello di una gay girl, sollevava problemi e ancor più esprimeva una narrazione. Narrazione di sé, delle altre e degli altri: anche questo è web. La narrazione ha minori contenuti di verità della realtà? Il simbolico di una narrazione non ha presa, non ci interessa? O ci intriga, emoziona e coinvolge ben di più di un articolo del “Corriere” o di un reportage televisivo? Una coppia di romantici attivisti anglosassoni ha saputo creare una personaggia che ci ha riportato la realtà di un’esistenza in qualche modo esemplare ed ha suscitato emozioni non solo riduttivamente politiche.
Amina è il personaggio di un racconto, ed è giusto rivelarla come tale, ma non sempre l’immaginazione è falsa, spesso dice molto di più di quanto chi manipola davvero le cose voglia farci credere. E io sono certa che esista veramente, da qualche parte a Damasco e altrove, quella gay girl antiregime alla quale Amina ha dato amorevolmente voce. We all can be Aminas, just for one day.