Davanti alla morte, o meglio davanti alla sofferenza altrui per essa, divento rigida, impacciata, imbarazzata. E come in tutti i casi di rigidità-impaccio-imbarazzo può succedere di dire scemenze. Frasi che già nell’attimo in cui ti escono di bocca ti innalzano sul podio della stupidità.
Chissà perché in certi casi ci si sente chiamati non alla sola consolazione della nostra presenza, ma al dispendio di verba, anche se poi tanto si sa che volant. Perché il silenzio non è d’oro, è terrificante.
Eppure non è questo che ti rende imbecille per un giorno, la laurea honoris causa persa ti viene conferita perché, pur sapendo benissimo quanto le frasi che stai per pronunciare siano ridicole, ti scopri a dirle lo stesso, ritrovandoti appena dopo a vivere uno di quei momenti d’improvvisa presa di coscienza e vedere te stessa dall’esterno come in un programma su Real Time: Non sapevo di essere scimunita.
Sarà un fatto fisiologico, innato, chissà? O è solo l’idiota automatico che si attiva davanti all’impaccio, May day may day!
Per fortuna i congiunti in quel momento hanno ben altro per la testa che badare alle scemate che ti escono di bocca. E poi appizzando le orecchie un poco ti consoli: non è che gli altri siano tanto più brillanti; le frasi più tipiche portano con sé persino una connotazione comica, perché immagini ipotetiche risposte…
«Devi farti forza» (Grazie, come mai non ci ho pensato?), «La vita continua» (Certo. Tranne quella del neo-trapassato, gentile a ricordarlo. Repetita…), «Ha smesso di soffrire» (Sì, Pollyanna, e anche di vivere, pensa la combinazione).
Ricordo ancora una nostra parente, tanti anni fa, che di fronte alla fotografia appena collocata sulla lapide di mia madre commentò «bella! Tale e quale». Pareva dunque che mia madre fosse nientemeno che uguale… a mia madre.
Non ebbi cuore di dirle che, in effetti, quella ritratta era lei e non il cane.