Dear London siediti e ascolta la nostra rabbia

Ai tempi del New Labour di Tony Blair c’erano gli squali in formaldeide di Damien Hirst (metafora neanche velata della City), c’era una principessa sventata, giravano soldi, cantavano Blur e Spice Girls. La coppia del momento, Liam Gallagher e Patsy Kensit, faceva di tutto per convincerci che fosse tornata in terra la Swinging London, con una meglio gioventù decisamente più furba.
Oggi? Oggi voglio raccontare la mia Londra. Alla fine, è quella che ci sta lasciando o che vogliono portarci via, quella che abbiamo conosciuto quando il richiamo brit (a chi non è mai arrivato?) si è fatto sentire con prepotenza. Voglio partire dal momento che oggi più mi manca, ma attenzione. Nessuna operazione nostalgia. Si tratta semplicemente di fissare un punto di partenza.
2012. Cosmopolita, squisitamente affollata e più di tutto meticolosamente di corsa: i giochi Olimpici a luglio hanno mostrato il volto migliore di Londra. La mia Oyster card – limited edition – emessa proprio a luglio di quell’anno, che oggi ancora rivendico con orgoglio, me lo ricorda ogni giorno.
Il messaggio che la Signora ha lanciato al mondo non avrebbe potuto essere più chiaro: «niente paura». Perché pur con i costi che lievitano, il bello è che c’è chi anche nella crisi, riesce – forse perché intrappolato nella tube – a stare a galla grazie ai premiati sforzi.
Città come queste regalano emozioni diverse dalle altre, regalano storie di esseri umani che escono dall’anonimato, a volte anche per un giorno di gloria. Regalano fiducia: ne abbiamo bisogno.
Come tante altre metropoli non gode delle sette o settantasette meraviglie; ma, come altre, ancora dà risposte a infinite domande, aumentando il ventaglio delle opzioni. A volte lo fa in maniera brutale: consegnando il neo arrivato alla lava bollente del rumore, di strade sopra strade, tremendi ponti di ferro, metropolitane e teatri di guerra.
D’accordo. Ma perché le Olimpiadi? Molto semplice: i giochi Olimpici hanno ricordato a tutti quello che Londra poteva trasmetterci e che, ad oggi, mi fa sentire fortunatissimo. Londra ha insegnato a tutti che i campioni si fanno con qualcosa di più profondo. Un desiderio, un sogno, una visione. Appunto. Una visione.
Oggi non possiamo non chiederci dove sia finita quella visione. Che fine abbia fatto la Londra che abbiamo conosciuto. 5 anni dopo dirigiamo l’odio e tutte le ataviche diffidenze verso i comportamenti diversi, estranei, pericolosi, nemici. La paura. L’insicurezza. La solitudine. I muri. Le reti.
Io sono nato nell’89 e tutto questo è già troppo. A volte non ci credo. E forse non posso crederci. Neanche in un giorno di sole, dove ogni cosa pare illuminata. Siamo in tanti a cercare una risposta e Londra deve darcela. Lo deve a Paul, che ha votato Remain e non può sopportare di essere definito xenofobo o razzista dal resto del mondo perchè la sua città ne ha abbastanza degli immigrati. Lo deve ad Arianna, che si è trasferita lì per studiare. Lo deve a Elena, che sta per nascere lì da madre e padre italiani, trasferitisi a Londra nel 2011. Lo deve a Luigi, che a Londra ha trovato l’amore.
Lo deve a noi. Lo deve a Jo Cox. Lo deve a Brendan Cox, vedovo della defunta parlamentare laburista. Al suo messaggio. «Se il 2016 è stato, per tutti noi, l’anno della chiamata d’allerta, spero che il 2017 possa diventare il momento in cui realizziamo che abbiamo molto più in comune, di quanto non ci separi».

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