In tempi lontani, nei luoghi di mare, i pescatori tornavano all’alba stanchi col loro carico notturno. Al molo li attendevano i compratori, a casa le donne; donne pazienti abituate ad aspettare e non aspettarsi nulla, che mettevano a bollire le patate per il pranzo. Tempi grami, quelli. Si mangiava quel che c’era. Patate, appunto. E cipolla, e olio, e un po’ di sedano e carota per soffriggerle, dopo lessate, in una padella grande. Patate in tecia, si chiamavano. Le stesse che sui monti appena dietro venivano preparate con strutto e qualche pezzo di pancetta.
Nei luoghi di mare invece quello che succedeva era che alle volte qualcosa restava invenduto, del pescato della notte, e il padrone della barca lo distribuiva come aggiunta, povera, allo stipendio.
Un merluzzetto, un sanpietro, uno sgombro. Quel che c’era.
E gli uomini tornavano a casa, e trovavano le patate in pentola a cuocere, e le donne prendevano il pesce e lo pulivano e lo mettevano nella pentola con le patate e un po’ d’acqua in più; per poco, ché mica ci vuole tanto e sennò si disfa, e poi lo servivano in tavola.
Gregada, si chiama, in memoria delle sue origini elleniche probabilmente.
Ci sono tante versioni, di questo piatto, dalla più semplice e grezza (patate tagliate sottili e pesce intero a strati con cipolla e olio e acqua a fare una zuppa) alla più sostanziosa e raffinata.
Quella che mangio io di solito implica patate bollite schiacciate grossolanamente con la forchetta in una casseruola bassa coperta con un ricco soffritto di cipolla, il pesce sfilettato aggiunto poi e tolto appena pronto, lasciando il resto a cuocere per bene, e poi servito in piatto sopra le patate.
Gregada, si chiama.
Roba da greci.
Roba da genti di mare delle parti mie.
(Grazie a Alessandro Corvini, ottimo cuoco e fonte inesauribile di piatti tradizionali)