Ho cinque anni. Dev’essere il 1981 o giù di lì. Ho ancora paura del buio e non mi piacciono il fegato e le zucchine, come ogni infante che si rispetti. Ma sono meno distratta di altri bambini: mi piace osservare le cose, per capire come sono fatte.
Conosco a memoria questo lembo di A4. Due alberelli prima di Padova, casa verde a una curva dalla galleria, sole, seconda galleria – quella corta – e tangenziale fino al condominio della nonna. La Peugeot di papà gracchia e sbuffa, opponendo lustri e lustri di onorato servizio al trattamento irrispettoso che le si sta riservando. Il pedale dell’acceleratore è schiacciato a tavoletta dall’inizio del viaggio. Mamma, però, è isterica comunque, e strilla ogni due minuti una parola che afferro appena. “Èttardicàzzo!”, ripete, digrignando i denti e sbattendo il palmo della mano destra contro lo sportello. Io non posso neppure vomitare in qualche piazzola e non c’è Travelgum che tenga; mi tocca il sacchetto di plastica.
Superato il casello d’arrivo, papà non prende la solita rotonda. Il tetto grigio della nonna resta indietro.
L’auto smette di tormentarmi lo stomaco dopo pochi minuti. Mio padre ha parcheggiato e spento il motore. Di fronte a noi c’è un giardino magnifico. Ogni foglia sembra nuova, d’un verde brillante, ed è pieno di aiole fiorite, perfettamente curate. Che stridono con tutta quella gente scura. Piangono gli zii, i miei nonni, persino secondi o terzi cugini che non sapevo di avere. Mamma urla finché non riaprono la buca. Nessuno può negarle di dominare il tempo. Il suo, di nonno, è elegante in quel gessato terra di siena. Ha un garofano rosa all’occhiello. È sereno. Sembra che dorma, con il consueto mezzo sorriso appeso alle labbra. E io proprio non riesco a capire cosa voglia dire, realmente, l’aggettivo “morto”.