Che gusto c’è?

Viviamo da un po’ di anni, almeno in Italia, in una galassia estetica apparentemente libera, slegata dall’ossessione del marchio all’ultima moda. In pratica ognuno si costruisce il suo modello, a propria immagine, fashion designer di se stesso con l’unico limite del gusto personale – spesso carente – e della scelta da effettuare, per forza di cose, tra i prodotti che trova in giro. Abiti ed accessori che, nei migliori o nei peggiori negozi, ormai tendono a confondersi in un disordinato eclettismo.
Tutto ciò avrebbe anche una valenza genericamente positiva: la libertà, seppur condizionata, è sempre un valore da tener caro e lo sdoganamento dall’obbligo di acquistare griffato, esibendo anche con un certo orgoglio merce contraffatta e strenuamente contrattata al banchetto dei senegalesi o direttamente sulla spiaggia, non ha prezzo. Anzi ce l’ha, ma è bassissimo.
Il punto dolente, come accennavamo, è il gusto.
Prendiamo l’inarrestabile moda del tatuaggio, abbattutasi come uno tzunami su corpi nostrani di ogni età, sesso e morfologia. I tattoo shops, una volta relegati quasi in clandestinità nelle vie più sordide delle periferie urbane, vivono una rivincita epocale e fanno bella mostra di sé nei quartieri di lusso.
I risultati “in corpore vili” lasciano però perplessi. Si iniziò con piccoli, timidi segni zodiacali per passare a simboli sempre più arcani e vistosi. Travolgente il successo del tatuaggio “tribale”, particolarmente adatto a nerborute braccia maschili, seguito dall’epopea dei nomi ritenuti incancellabili ma fatalmente destinati a un brusco, imbarazzante declino. Favoriti dall’esempio di attori, rockstar e calciatori, dilagano ora senza controllo tatuaggi multicolori che arrivano a coprire l’intera superficie del corpo, trasformando familiari arenili in passerelle di tableaux vivants in pigro movimento o impegnati in estenuanti match ai racchettoni. Giovanotti dai venti agli ottant’anni, attesi al tramonto per il riposo del guerriero da sinuose salamandre lettinizzate, dai cui bikini spuntano enormi, inquietanti ali posteriori ricche di squame.
Temo che il mito dell’innata eleganza italiana abbia subito colpi durissimi, negli ultimi decenni. Il ruolo sbeffeggiato, colpito e infine affondato del grande stilista, arbiter elegantiarum indiscusso di un tempo, ha lasciato un vuoto obiettivamente difficile da colmare per i nostri giovani che, smarriti, profondono tesori di energie nel tentativo di affermare nuove tendenze finendo però per puntare sempre sul ridondante eccessivo, la trasgressione studiata a tavolino e dunque deprivata in modo automatico di ogni vis sulfurea .
Sarà perché, ormai, c’è rimasto poco da dire. E perciò anche noi, correttamente, tacciamo.

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