Cent’anni di isolitudine

C’erano giorni in cui mi raccontavo di essere triste e non lo ero: potevo impormi il lusso dell’indifferenza allo splendore delle belle giornate, i bagni non erano più un’avventura, ma un’abitudine.
Così ritornavo al guscio secco e fragile di cartilagine che è il tempo quando filtra la luce, quando asciuga il riverbero dei suoni e delle voci, il tempo di una controra infinita.
Ritornavo al piacere della noia e mi ascoltavo crescere.
Sorvegliavo la metamorfosi del corpo, l’arcipelago di isole bianche che emergevano dalla scorza salata. Mutavo pelle, ancora una volta, e inseguivo lo sgomento di un altro me che sarebbe stato di lì a qualche anno con lo struggimento dell’amante.
Meditavo rivalse sul mare che mi tradiva ogni estate con altri.

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