Chi si è tuffato da un trampolino o da una roccia di almeno cinque metri di altezza conosce la sensazione che si prova appena si entra in acqua. Per circa tre secondi perdiamo ogni cognizione di spazio e di tempo. Non sappiamo se siamo vivi, se stiamo sognando, ovvero se sogniamo di stare sognando di essere tornati nella pancia della mamma e di aver compreso che siamo solo acqua. Due atomi di idrogeno appiccicati come orecchi a un grosso atomo di ossigeno.
La consapevolezza che, in definitiva, siamo molto simili alla ricciola in guazzetto che ci attende per pranzo, ci fa riemergere felici e liberi da ogni angoscia esistenziale.
Le sensazioni che ho cercato di descrivere sono le stesse che io provo nell’ascoltare Bill Evans.
Nato il 16 agosto 1929 in un paesino del New Jersey da un gallese e da una russa ortodossa, Bill è tornato nel mare ad appena 51 anni, il 15 settembre 1980. Era alto, dinoccolato, le mani grandi, gli occhiali da nerd e depresso, depresso, depresso fino a morirne.
Eppure quest’ uomo è stato capace di rivoluzionare il mondo della musica e non soltanto della musica jazz. William John Evans, infatti, era, innanzitutto, un pianista classico che sei ore al giorno suonava Bach, Chopin e i suoi compositori preferiti: Debussy e Ravel.
Dall’impressionismo musicale francese al jazz e ritorno, Evans distilla le note come gocce d’acqua che raccoglie dal mare e nel mare poi rigetta dopo avercele mostrate al microscopio.
La fluidità del discorso musicale, all’epoca, lasciò interdetti gli artigiani e i supporters del bebop, ma anche gli stessi amanti del cool jazz. In effetti, non si può proprio dire che la musica di Evans sia rilassante.
Sono suoni impegnativi per l’orecchio che resta, per tutto il tempo dell’ascolto, in tensione alla ricerca di ciò che si nasconde oltre la musica. Ciò dipende certamente dal fatto che Evans suonasse il jazz modale, cioè gli accordi jazz erano di tonalità diversa da quella della canzone. Peraltro egli, proprio come Debussy, prediligeva il modo frigio caratterizzato da note minori. Sconvolgente è, ad esempio, la sua versione di Summertime. Sembra di stare sott’acqua. Di essere dentro quel lago dai pesci saltellanti di cui narra la canzone.
Soltanto al terzo o quarto ascolto scopriamo tutta la ricchezza della musica e restiamo annichiliti, sconfortati da tanta bellezza. Ci fermiamo commossi a rimirare il suo universo mentre lui rimane con la testa china sulla tastiera, provando a non pensare.