lasciarsi andare

il sale su per le narici fino al cervello, gli occhi strizzati, la curva dell’acqua indugia lenta e gioca con il mento, con la fronte, le ciocche si scompongono a ventaglio e nervi gelidi pizzicano il cuoio, le braccia piegate e il palmo delle mani fuori, così a lungo che la punta delle dita è asciutta, anche la buccia delle ginocchia; il piacere è conflitto, è misura del contrasto, e ti da la vertigine delle tante cose che ancora devi scoprire, perché sei solo un bambino;

lentamente l’acqua invade la conca delle orecchie e la riempie, e il bacino si sposta con un movimento impercettibile perché il corpo sa, anche se tu non sai, e trova sempre un suo equilibrio; ora non solo vedere, anche sentire è attutito, eppure più profondamente acuto, quel che è lontano è vicino, e viceversa, ma a sprazzi, seguendo l’andamento del mare e del guscio vuoto che sei: il motore di un fuoribordo, lo schiaffo di un tuffo, il borbottio di due ragazzi, come se l’infinito liquido in cui sei immerso avesse vene che lo collegano ai confini del mondo;

diventa così facile lasciarsi andare, troppo facile fingere di morire per tenersi a galla con uno sforzo che non immaginavi connaturato, ed è l’istante in cui contro ogni legge di natura anche morire per davvero non ti fa più paura, perché è il nulla, e quel nulla lo hai abitato; ma ci stai pensando e chiudi gli occhi, e mentre vai giù ritrovi braccia e gambe per risalire in superficie e riprendere fiato.

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