Vediamo ciò che siamo

Mi appare su fb una fotografia molto interessante: l’autoscatto di una fotografa della quale non ho rintracciato il nome* -perché generalmente su fb ci si dimentica il diritto d’autore e i riferimenti bibliografici- che si ritrae nuda, con i due figli anch’essi nudi, uno in braccio, l’altra avvinghiata a una gamba.
La macchina fotografica vecchio stile appesa al collo arriva sotto due splendidi seni, con brevi tracce di latte fuoriuscito. E’ in bianco e nero e la trovo bellissima. La osservo a lungo.
Purtroppo -sono una che persevera nell’errore- leggo i commenti e, dopo alcuni di elogio alla maternità, alla bellezza artistica della foto eccetera, parte lo sproloquio dei “l’ha fatto solo per mettersi in mostra” -non ho parole per spiegare quanto sia lapalissiana questa frase lapidaria- “sarà la gioia dei pedofili”, “se non era una bella gnocca non la cliccava nessuno”, “sono madre anch’io e non faccio vedere la passera a tutti” e, la mia preferita, “dovrebbe avere almeno un po’ di rispetto per i figli”.
Penso che sì, un pedofilo ci farebbe festa; un fotografo direbbe che luce, composizione e tema sono ottimi e forse un altro che sono pessimi; una madre si sentirebbe offesa e un’altra rappresentata appieno; qualcuno si sentirebbe imbarazzato e forse qualcun’ altro eccitato; un nativo di una tribù della foresta Amazzonica si chiederebbe solo cos’è quell’arnese che pende fra i seni della donna.
Dunque ciò che vediamo e come lo interpretiamo viene da ciò che siamo.
Vediamo ciò che già siamo. Manifestiamo solo ciò che è già in noi.
Attribuire un significato univoco a un’immagine, o a un pensiero che evoca un’immagine, a meno che non sia stato palesato dall’autore, è come dichiarare che il gelato al cioccolato è il migliore al mondo: un’opinione personale, non una verità.

*Giorni dopo ho ritrovato la foto: lei è Anastasia Chernyavsky e continua ad esserlo anche se fb ha “rimosso il suo scatto perché scabroso”.

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