Per anni ho abitato in un gruppo di case che condividevano un cortile interno. Di fronte a me c’era un sarto in pensione, Giuseppe, che faceva volentieri lavoretti per il vicinato.
Era a Bologna da mezzo secolo, ma aveva ancora un accento veneto da paura.
Ci incrociavamo spesso. Io tiravo fuori la spesa dal baule della macchina, lui passava con una pila di camicie stirate. Salutava, sempre sorridente. E mi chiamava Emilio.
Ho provato a correggerlo un paio di volte: “Giuseppe, mi chiamo Eugenio”. Niente.
Allora va bene così. Sapevo che per lui ero Emilio, pace. Bah, l’iniziale almeno combaciava.
Il sarto muore. Scopro che in realtà si chiamava Guerrino. Bah, l’iniziale almeno combaciava.
Un flash. Per quindici anni ci siamo visti in cortile. (Buongiorno Emilio, ’ngiorno Giuseppe) e entrambi pensavamo:
“Ma guarda ’sto rimbambito, non ha ancora imparato che mi chiamo Eugenio”.
“Ma varda ’sto babeo, no ga ancoa impara’ che me ciamo Guerrino”.