Raccontino di Natale in quattro quadri e in salsa zeneise (genovese)
I
Non era stato un regalo di Natale particolarmente gradito né atteso.
Anzi, nella marea di oggetti di poco valore che tra colleghi simpatici o gentili conoscenze o parenti di scarsa frequentazione si era usi scambiarsi, quello gli era addirittura sfuggito, tanto che neppure ricordava chi glielo avesse donato. Forse la vecchia zia Pinin, che conservava tutto in nome dei bei tempi andati. Forse la glamourevole signorina Stimamiglio, del quarto piano, che ogni mattina incrociava mentre portava a spasso il suo barboncino dal perlaceo pelo spumoso e profumato. E se fosse stato il suo collega di stanza, quello schivo ragionier Narciso che, a dispetto del cognome, era un eclatante caso di complessata timidezza? A pensarci, sarebbe stato proprio da lui lasciare un pacchetto senza farsi scorgere, per evitare imbarazzanti e imbarazzati ringraziamenti. Avrebbe però potuto essere il cortese edicolante – sempre deferente e servizievole con lui che, oltre al consueto quotidiano, collezionava ogni sorta di fascicolo con gadget accluso – a decidere di gratificare con quell’omaggio un così buon cliente.
Mah… proprio non riusciva a rammentare in che occasione gli fosse capitato tra le mani, per di più la mancanza del consueto biglietto beneaugurante di accompagnamento rendeva ardua l’impresa di rintracciarne il donatore.
Proprio non riusciva a comprendere come potesse essergli sfuggito, dal momento che non poteva certo dirsi minuscolo: a dirla tutta, era stato proprio il primo dei pacchetti che aveva deciso di aprire giusto la mattina di Natale, come quando era piccolo e le feste avevano ancora un senso.
Allora sì che scartare i regali era una festa irrinunciabile: che gioia eccitante l’andarne a caccia fin dalla sera precedente, fingendo di dormire per poi avere via libera ed iniziare prima l’attesa di un munifico Gesù Bambino, e poi, più grande, aspettare il momento in cui i genitori avessero finito di sistemare i pacchi sotto l’albero per uscire dal suo nascondiglio e cominciare a scuoterli curioso.
Poi tanti natali erano trascorsi e con loro il tempo e i volti e le piccole felicità che rendono vivi. Intendiamoci: non che la sua fosse una vita grama. Aveva fatto carriera, era ben sistemato, la casa – ereditata dai suoi – era la stessa in cui era nato e cui aveva portato significative migliorie, che l’avevano resa ancora più accogliente. Coltivava, nell’ambito professionale, soddisfacenti relazioni sociali e si concedeva stuzzicanti relazioni d’altro tipo, anche se queste, ormai, sempre più sporadicamente. “Una vita tranquilla”, amava definirla compiaciuto, soddisfatto di sé.
Per quel Natale non aveva previsto nulla di particolare. Sapeva già che, come ogni anno, sarebbe giunto l’invito a pranzo della zia Pinin che, come ogni anno, sotto le feste si rammaricava in special modo per la sorte di scapolone di quel suo algido nipote, il quale, come ogni anno, avrebbe rifiutato – con scuse sempre più improbabili – di essere arruolato in estenuanti tombolate con parenti ormai estranei. In effetti, come ogni anno, aveva già prenotato il consueto ristorantino poco lontano da casa, che, come ogni anno, a Natale, arricchiva il solito menù con portate “esotiche” (la definizione era di Annunziata, la proprietaria, che, assediata dai sempre più numerosi localini etnici che pullulavano nel centro storico, spacciava per tali le ghiotte specialità della tradizione campana).
Tuttavia, il piccolo rito dei pacchettini da sfasciare aveva voluto conservarlo. Sapeva di non poter contare su grandi sorprese, visto che aveva accumulato, per l’appunto, solo quelle quisquilie convenzionali e di routine che a sua volta aveva offerto ai vari conoscenti. Non che non si fosse tolta qualche soddisfazione (e avrebbe voluto vedere, con tutto quello che lavorava!): un nuovo impianto home theater troneggiava già dalla sera precedente in soggiorno, mentre nel cassettone da due settimane riposavano – ancora incellophanate – un paio di camicie finissime, con le cifre del suo nome ricamate tono su tono. Contava anche sul classico oggetto di rappresentanza (il Natale scorso aveva ricevuto una penna d’argento – con il prestigioso marchio della Ditta – che non mancava mai di far spuntare dal taschino della giacca) che il capo del personale era solito inviare ai dipendenti più efficienti e motivati e lui sapeva che anche quest’anno era stato degno di quell’ambìto riconoscimento.
II
Quella mattina si era alzato di buon’ora e, senza neppure poltrire un minuto più del necessario tra le tiepide coltri, era balzato con le gambe ossute fuori dal letto e, a piedi scalzi, era corso all’ingresso del suo appartamento, dove, sopra il tavolinetto dove ogni giorno buttava negligentemente le chiavi di casa e il cellulare, aveva poggiato un minuscolo presepe di peltro racchiuso in un cofanetto di velluto rosso (un regalo della devota zia Pinin, o era ancora della defunta zia Teresitta? Lo aveva scordato). Sotto il tavolino, aveva nascosto, man mano che gli venivano consegnati, tutti i regalini, col proponimento di aprirli solo la mattina di Natale.
Ecco dunque il momento tanto infantilmente atteso (un poco se ne vergognava, ma tant’è…). Il suo sguardo fu immediatamente attratto da un pacchetto sottile ma ingombrante per larghezza, tanto da fuoriuscire di alcuni centimetri da sotto il tavolinetto. Quando lo aveva messo? Non dandosi il tempo di rispondere, lo aveva scartato giulivo, ma era rimasto perplesso ritrovandosi tra le mani una cornicetta di legno semplicissima, che racchiudeva una stampa, no, una foto, anzi, osservandola meglio, neppure una foto: un vecchio dagherrotipo che ritraeva una piazzetta del centro storico della sua città. Al centro dell’immagine, una chiesa sopraelevata rispetto alla strada, alla quale era collegata mediante una ripida quanto scenografica scalinata. L’edificio – dalla facciata stinta e dimessa, nonostante la cupola, i pinnacoli e tre robuste arcate – era infatti collocato su una grande terrazza, con al piano terra varie botteghe. Intorno ad esso, incombevano palazzi alti e addossati l’uno all’altro, dalle persiane alla genovese abbassate. Ciò che colpiva, però, era la desolazione di quella piazza vuota. Sembrava che la foto fosse stata scattata subito dopo chissà quale evento che avesse spazzato via ogni forma di vita. Nessuno che sbucasse dalle botteghe, o si affacciasse alle finestre, o attraversasse la piazzetta, o salisse per i gradini dello scalone, o si incamminasse nei vicoli che si intravedevano ai lati della chiesa. Non un’anima viva.
Rimase qualche minuto ad osservare quell’immagine, rigirando ogni tanto la cornice per cercare, magari sul retro, una dedica, una frase, una scritta qualsiasi che potesse illuminarlo sul significato e la provenienza dell’oggetto. Nulla trovando, lo poggiò nuovamente sul pavimento, dove era rimasta la semplice carta da pacco, senza alcun decoro, con cui era stato fasciato. Iniziò a scartare gli altri doni, fingendo con se stesso una partecipazione gioiosa che in realtà non provava, continuando infatti ad arrovellarsi su chi poteva avergli fatto quello strano regalo. Un accendino (caspita! la signorina Pittaluga non si era dunque accorta che da sei mesi aveva smesso di fumare!), fermacarte, CD, best seller, cravatte… le solite cose (magari riciclate) che ogni anno riceveva.
Terminato il rito, iniziò a ripiegare con cura la carta degli involucri, ad arrotolare i nastri, a recuperare le decorazioni. Li avrebbe poi depositati in una larga scatola di cartone, nascosta in un ripiano dello stanzino delle scope, in cui conservava quanto necessario per confezionare nuovi regali per il prossimo anno. Mise poi ogni oggetto ricevuto nella collocazione migliore: le cravatte nel “gira-cravatte” a pile (altro dono aziendale di uno dei natali scorsi) chiuso nel suo armadio; i best seller (che difficilmente avrebbe letto: arrivava troppo stanco, la sera, per potersi poi dedicare anche alla lettura) nella bella libreria di noce ereditata dal padre (lui sì, vero e accanito lettore!); i cd nella torre nera accanto allo stereo; i fermacarte in fila (sempre più affollata) con gli altri già ricevuti, su una mensolina d’ardesia del soggiorno. Lo spiritoso accendino a forma di Lanterna – dono della distratta signorina Pittaluga – fu riposto in un cassetto della cucina: se ne sarebbe servito per accendere il gas.
E la cornice con il dagherrotipo? “Che triste”, borbottò tra sé scuotendo il capo. Eppure scelse per essa un’inedita sistemazione: piantò un chiodo con pignola perizia, e l’appese esattamente sopra lo schermo piatto del suo televisore ultra piatto e ultra large. Quindi, andò a prepararsi: si lavò, versò un poco di “Acqua di Genova” – la colonia con cui si irrorava per i suoi rari appuntamenti galanti – sul palmo delle mani e si picchiettò le gote accuratamente rasate, indossò una delle camicie nuove e un completo nocciola elegante, cercò una cravatta che vi si intonasse, infilò il suo paltò cammello, quello che tirava fuori solo per le grandi occasioni, e andò al ristorante di Nunziatina a consumare il suo solitario pranzo di Natale.
III
Con sua meraviglia, scoprì di essere l’unico avventore del ristorante, se si escludeva il signor Mario, rimasto vedovo sei mesi prima e da allora cliente fisso mezzogiorno/sera del locale. “Cosa vuole, la crisi..” allargò le braccia Annunziata, ciabattando tra la cucina e la sala. Il pranzo fu comunque squisito e accurato – come sempre, del resto – e la cuoca insistette perché i due ospiti si servissero una seconda volta dal carrello dei dolci (ottimi, ma il pandôçe (1) della zia Pinin un poco gli mancava). “Ed è “a grati”! (2) E’ Natale! Mangiate, non fate complimenti!”, li incitò sorridendo, e furono “a grati” anche il caffè e l’ammazzacaffè (quello speciale limoncello che Nunziatina preparava in casa). Satollo e soddisfatto – sia del pranzo che della spesa – tra i calorosi auguri della padrona e del signor Mario (che parve invece desideroso di fermarsi ancora un poco) decise di tornarsene subito al suo appartamento, essendo la giornata piuttosto rigida.
Fu con un senso di riconoscente rilassatezza che si buttò a corpo morto sulla poltrona davanti al teleschermo, con i numerosi telecomandi già a portata di click. Eppure non accese né l’home theater, né la televisione, né lo stereo, e neppure l’iPod, la cui cuffietta pendeva dal bracciolo. Il suo sguardo era fisso sul dagherrotipo. C’era qualcosa che non gli tornava. Subito non comprese di che si trattasse, poi, alzatosi per esaminarlo meglio, si accorse dell’anomalia: seduti sui gradini della scalinata vi erano alcune persone, ragazzi, gli parvero. “Saiö abelinòu ?” (3) si chiese ad alta voce (gli capitava, talora, di parlare da solo). “Avrei giurato che non ci fosse nessuno”, rimarcò scuotendo il capo. “Troppo stress”, concluse ragionevolmente, più sottovoce.
Pacificato con sé stesso e con il mondo, si appisolò sulla poltrona, complice la lunga digestione che il suo stomaco chiedeva di poter svolgere con calma, e il tepore della casa (contravvenendo ai suoi princìpi e alle raccomandazioni delle autorità cittadine, aveva regolato il termostato qualche grado in più del consentito). Si risvegliò di soprassalto dopo qualche minuto (o così gli parve). Era sudato eppure tremava di freddo: “Ho mangiato troppo”, si rimproverò. Era buio e dovette accendere l’abat-jour per vedere l’ora della pendola di nonna e verificò che in realtà erano le sette di sera. “Berrettin! (4) non ho neppure fatto una telefonata d’auguri a lalla Pinin (5), povera donna!” esclamò desolato sì, ma non abbastanza da comporre il numero della zia al cellulare. Strisciando i piedi (l’avesse visto quella buonanima di sua mamma, maniaca com’era delle pattine, avrebbe mugugnato senza requie per l’intera serata!) si diresse verso la piccola cucina, sbadigliando rumorosamente e grattandosi negligentemente il capo. Aprì la porta del frigorifero, di cui esaminò – senza vederlo – il contenuto, la richiuse, avvertendo una sgradevole acidità salirgli in gola. “Meglio saltar cena”, si ammonì giudizioso, e ritornò in soggiorno. Qui spense il piccolo abat-jour e accese il lampadario centrale. Fu in quell’istante che ancora gli cadde lo sguardo su quel dagherrotipo. “Ohimemì!“(6) gli sfuggì in un gemito.
L’immagine era ancora cambiata: adesso un gruppetto di persone si intratteneva di fronte a una bottega, come per commentarne l’esposizione. Decise di non dare importanza a quanto aveva certamente solo creduto di vedere, distogliendo immediatamente lo sguardo da quella fotografia e inserendo un DVD nel lettore e mettendo ad alto volume il suo impianto di diffusione. Si addormentò ancora in poltrona e si svegliò solo il mattino seguente. Con le membra anchilosate provò a tirarsi su: si sentiva stanco e preoccupato, la mente confusa. “Fortuna che ho preso qualche giorno di ferie”, si consolò. Andò in bagno, si lavò e si preparò con molta meno cura del giorno precedente. Uscì, incontrando ben poche persone per via. L’aria fresca, tuttavia, gli fece bene. Più rinfrancato tornò a casa e si preparò una minestrina, col proposito di tenersi leggero e di stare lontano, per qualche tempo almeno, dalle prelibatezze di Nunziatina. Dopo mangiato si coricò, certo di aver accumulato troppa stanchezza nel periodo immediatamente precedente al natale. Dormì, infatti, profondamente e, al risveglio, nel tardo pomeriggio, non ricordava alcun sogno che avesse turbato il suo riposo. Evitò di passare in soggiorno e trascorse il resto della giornata in cucina, deciso a fare un po’ d’ordine tra gli scaffali. Per cena, una tazza di latte e biscotti del Lagaccio fu sufficiente a saziare il suo debole appetito e, presa dal bagno una vecchia rivista, la sfogliò prima di riaddormentarsi nuovamente.
Note
(1) pandolce
(2) è gratis!
(3) “Sarò (diventato) stupido”?
(4) eufemismo che sostituisce l’esclamazione più volgare “Belin!”: “Ca..spita!”
(5) zia Giuseppina
(6) “O povero me!”
IV
Il mattino dopo si sentiva decisamente più regaggïo (7). Dedicò più tempo alla cura della sua persona, si vestì ponendo la consueta attenzione agli abbinamenti, indossò un cappotto grigio scuro, più sobrio di quello cammello, e uscì. Le quattro chiacchiere con la signorina Stimamiglio, le carezze a quella palla di pelo del suo barboncino, il rituale sfogliare i settimanali dal cordiale giornalaio, che gli indicò una nuova collezione di ex voto di Padre Pio da iniziare, lo misero di buon umore. Passò dal rosticciere e si concesse il lusso di due fette di Cappon magro (8): aveva deciso che il suo stomaco poteva riprendere con tranquillità il suo tran tran, ma voleva viziarlo con una leccornia per esso ormai rara (ricordava ancora sua mamma, sua nonna e la zia Pinin prepararlo dal giorno precedente quello in cui sarebbe stato consumato). A casa apparecchiò nell’angolo da pranzo del soggiorno: tirò fuori la tovaglia di Fiandra dei giorni di festa, il servizio buono di Sèvres (dono nuziale che i suoi ben di rado avevano adoperato), e persino i fragilissimi calici di Boemia della povera nonna Titti. Mangiò con gusto ed appetito, concludendo con una fetta del pandolce che aveva comprato dalla pasticceria sotto i portici: non sarà stato come quello casalingo della zia Pinin, ma si faceva mangiare, specie pucciato nel vin santo che aveva stappato per l’occasione. Dopo il caffè, fece quello che scientemente aveva rimandato di fare fino a quel momento: si alzò e andò a controllare il dagherrotipo. Era sicurissimo che la visione sarebbe stata la stessa di quando aveva sfasciato il pacco: una chiesa sopraelevata in una piazza deserta.
Le cose, però, stavano diversamente: alcuni uomini erano apparsi sul lato sinistro della piazza, nel caruggio (9) che correva di fianco alla chiesa, altri – dentro i palazzi – avevano alzato le persiane, come per spiare l’andirivieni della via.
Ebbe un lieve mancamento. Si appoggiò per un attimo alla tavola ancora apparecchiata, poi – non sopportando di stare ancora in quella sala – andò in cucina. Come faceva da bambino, chinò il viso sull’acquaio di marmo e bevve avidamente l’aegua do bronzin (10), come gli raccomandava sempre la mamma dopo uno spavento. Rimase stordito in piedi, in mezzo alla cucina. Un chiassoso silenzio gli riempiva le orecchie e il cervello.
D’un tratto si riscosse e con passo deciso si diresse verso lo stanzino delle scope. Tirò giù la scatola delle carte e dei nastri, la rovesciò sul tavolo e prese a frugarvi freneticamente: “Ghe saià ben staeto un biggettin, pe-a misëia!” (11), ma, come già sapeva, non trovò nulla. Ricacciò tutto disordinatamente dentro la scatola, che scaraventò nello stanzino. Andò in ingresso, prese il cellulare e iniziò a fare un giro di telefonate a parenti e conoscenti per capire chi di loro gli avesse mandato quel maledetto dagherrotipo in cornice. Pochi, però, gli risposero: molti avevano approfittato delle feste per recarsi in villa (12), o erano in visita ad amici e familiari. Persino la zia Pinin era introvabile. Chi riuscì a intercettare aveva fretta, o non comprendeva la sua strana agitazione, o lo interrompeva per chiedergli notizie di questo o di quello. Nessuno sapeva nulla di cornici di legno e foto d’epoca.
Tornò in soggiorno.
Mise l’iPod a tutto volume, fino a sentire male. Lo spense. Andò a sciacquarsi il viso. Lo asciugò. Prese un grosso volume dalla libreria. Lo rimise subito al suo posto. Si diresse a grandi falcate verso il mega-schermo. Non lo accese. Allungò la mano verso il dagherrotipo. Lo staccò dalla parete. Lo tenne tra le dita senza guardarlo. Poi lo fece.
Altri gruppetti di uomini erano comparsi sulla piazza: piccoli capannelli di persone che parevano chiacchierare animatamente tra loro.
La cornice gli scivolò dalle mani e il quadretto cadde sul vecchio pavimento di graniglia a mosaico. Il vetro che proteggeva l’immagine si infranse con suono acuto di rimprovero.
Faceva freddo, in quei giorni. Tirava una tramontana che persino le navi nel porto non riuscivano ad attraccare. Andò in camera e dal fondo dell’armadio tirò fuori un vecchio cappello di feltro di suo padre: lo sapeva caldo, e di calore aveva bisogno in quel momento. Aprì la porta d’ingresso e uscì.
Quando, qualche tempo dopo, non avendo più avuto sue notizie al lavoro, lo vennero a cercare in casa, trovarono l’uscio ancora spalancato e l’appartamento deserto, come abbandonato in fretta e furia. La zia Pinin, che aveva accompagnato i carabinieri alla casa del nipote, raccolse il dagherrotipo ancora sul pavimento, tra i vetri infranti. “Di cosa si tratta, signora?” la interrogò il maresciallo con garbo inquisitorio. “Ninte, ninte, – rispose la vecchia asciugandosi, col dorso della mano increspata di anni, gli occhi nebbiosi di lacrime e ricordi – o l’ëa o presente ch’aveivo faeto a mae nevo pe’ Dënâ. A l’è unna vegia fotografia da ciassa Banchi, donde seu baccan gh’aveiva o scagno” (13). “Sciâ mïae – continuò – o poae o l’è sto chi: mae nevo o l’ëa paegio!” E indicò l’ultima figura apparsa sul dagherrotipo: un uomo ripreso di spalle, a gambe leggermente divaricate, le braccia appoggiate sui fianchi, come a scrutare la piazza davanti a lui.
Sul capo, un cappello di feltro. Caldissimo.
Note
(7) regaggïo: arzillo
(8) Cappon magro è una sorta di polpettone di pesci ed ortaggi, legato con salsa verde – spesso con della gelatina – e posto su gallette da marinaio bagnate d’acqua e aceto, guarnito con scampi e gamberi.
(9) Caruggio: tipico vicolo stretto del centro storico di Genova
(10) l’acqua del rubinetto
(11) “Ci sarà ben stato un bigliettino, per la miseria!”
(12) in villa: la casa fuori città, solitamente nell’entroterra di Genova
(13) “Niente, niente, era il regalo che avevo fatto a mio nipote per Natale. E’una vecchia foto di piazza Banchi, dove suo padre aveva l’ufficio”.
(14) “Guardi, il padre è questo qui: mio nipote era uguale a lui!”