Era un talento musicale.
Intonò il suo primo vagito al glissando del clarino che apre Rapsodia in blu. Non ci furono applausi. L’ostetrica non aveva cognizioni musicali e lo sculacciò, prima di riporlo nella culla. Sincopava le sillabe di ‘papà’ e ‘mamma’, ma tutti ridevano di quel balbettio infantile. Seduto sul seggiolone, rifiutava il cibo. Sua madre si ostinava col cucchiaino sospeso a fare il gioco del trenino – ciuf, ciuf- ”Mamma, non tieni il tempo” avrebbe voluto dirle.
L’infanzia fu una corsa pazza al ritmo di un galop, l’adolescenza dissonante come una sonata di Strawinskj, la giovinezza banalmente romantica. Un tipo come lui non poteva non innamorarsi al Chiaro di luna e palpitare Per Elisa, che Appassionata ricambiò il suo Sogno d’Amore.
Era amico di tutti. Era bravo con gli accordi e sapeva toccare i tasti giusti. Eppure c’era chi gli rimproverava un’inclinazione all’intransigenza – o tutto bianco o tutto nero.
Benché virtuoso, aveva i suoi difetti. Di umore umbratile, scivolava spesso in una tonalità minore, un’indolenza da si bemolle. Era poco coraggioso, ma quando si dava alla fuga, era un capolavoro di contrappunto che lasciava senza fiato.
Con la maturità scoprì nuove forme di armonia, più tolleranti e meno gerarchiche – ebbe una vecchiaia dodecafonica. Quando si accorse di essere ormai giunto alle battute finali, s’illuse di poter concludere il tutto con una corona, ma sbagliò il tempo e fu la prima volta. Morì glissando così com’era nato. Ci fu un ultimo applauso, che lui non sentì.
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